• Editoriale
  • Caso Sea Watch, quando il tifo supera la ragione

    E’ un caso che ha interessato e scaldato tutta l’Italia e per questo anche la stampa locale deve occuparsene. Stiamo parlando dell’arresto della comandante (perché capitana?) della Sea Watch, tale Carole Rackete, e della mancata convalida dello stesso. Pubblichiamo, di seguito, l’intervento autorevole di Dario Rapino, giudice onorario presso il tribunale di Pescara. 

    Come era prevedibile Carole Rackete è tornata libera e ciò non perché il gip di Agrigento sia al soldo della sinistra (esiste ancora una sinistra?), ma semplicemente perché, secondo scienza e coscienza, applicando e soprattutto interpretando le leggi di uno Stato di diritto, ha ritenuto non sussistesse il fumus dei reati contestati dal PM. Così funziona in democrazia , dove vige il principio della separazione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario (magari questa cosa possiamo insegnarla ai francesi, visto che da loro i PM sono sotto il controllo del governo). Le decisioni della magistratura vanno sempre rispettate, il che non vuol dire che non possano essere sottoposte ad un ragionato vaglio critico. Ricordo sempre quando nel corso della mia attuale esperienza giudiziaria, confrontandomi spesso con uno dei magistrati più preparati e scrupolosi dell’intero distretto abruzzese sulle soluzioni da adottare in qualche vicenda processuale, egli concludeva sempre “Comunque, Dario, ogni decisione è sempre opinabile”. Questa verità, così banale eppure spesso ignorata, è ciò che rende un giudice sereno, perché la certezza del diritto non risiede nella assolutezza delle decisioni (siamo pur sempre uomini e dunque fallaci) ma nell’intima pacata convinzione del proprio dicere. Ci sarà un motivo per il quale ogni provvedimento giudiziario è sottoposto a più di un riesame, spesso con esiti contrari? Personalmente e per quel che può valere , stante la mia scarsa conoscenza delle “carte processuali” della vicenda Sea Watch, la decisione del Gip non mi appare molto convincente e non solo per la riconosciuta scriminante dello stato di necessità, quanto per la contraddittorietà della motivazione. Mi spiego: la Rackete era imputata per aver disatteso l’ordine di una nave da guerra e per resistenza a pubblico ufficiale. Se tu ritieni il secondo fatto non punibile per l’esistenza di una superiore giusta ragione, intanto affermi l’astratta sussistenza del reato . Cioè se mi riconosci la legittima difesa vuol dire ad esempio che io in effetti ho sparato ed ucciso, altrimenti mi mandi assolto per non aver commesso il fatto. Se così è, non si comprende perché analoga scriminante non sia stata riconosciuta anche per la manovra di attracco, stante lo stretto rapporto causale tra i due fatti. Affermare che quella manovra non aveva messo a repentaglio l’incolumità dei finanzieri che cercavano di impedirla dopo aver intimato per ben tre volte l’alt mi pare una forzatura difficilmente sostenibile. In ogni caso, la vicenda giudiziaria è ben lungi dall’essere risolta, poiché la comandate è ancora imputata anche per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; vedremo con gli anni come finirà il tutto. Quello che mi colpisce, invece, sono gli sputi che le opposte fazioni continuano a scambiarsi per la vicenda: in Italia tutto diventa tifo, pochi si fermano a ragionare. Il che mi conferma ciò che ho sempre ritenuto: dei migranti non frega niente a nessuno. Non alla destra xenofoba (che altrimenti non sarebbe tale) e non ai cosiddetti progressisti, che utilizzano personaggi come la Rackete per surrogare l’incapacità di esprimere una politica che raccolga consenso. Non ho letto ancora un solo commento che si ponga la domanda dove siano ora quei 40 disperati, quale sarà il loro destino, se magari li ritroveremo stesi sotto un ponte a mendicare. L’integrazione, che è il vero tema delle politiche migratorie, non interessa a nessuno. L’importante è buttarla in caciara.

    Dario Rapino

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