• Editoriale
  • Il Molise e l’autonomia istituzionale

    Nonostante le modalità alquanto atipiche ed anomale con cui si è costituita il 27 dicembre del 1963, non c’è ombra di dubbio a nostro avviso che la regione Molise abbia in qualche modo ricevuto notevoli benefici dall’autonomia regionale, ma ha subito anche un processo di meridionalizzazione e per certi versi di isolamento.

    Il 7 giugno 1970 i cittadini dei centotrentasei comuni eleggevano per la prima volta la propria classe dirigente cercando, dopo anni di miseria postbellica e di flussi ininterrotti del fenomeno emigratorio, di riorganizzare il territorio, di immaginare nuove strutture sociali, di dare servizi efficienti ai cittadini e di elaborare in qualche modo un piano di sviluppo.

    Molti, pur avendo una diversa collocazione politica, hanno cercato inizialmente di tracciare le linee di un progetto di espansione economica della regione.

    L’orgoglio autonomista di alcuni uomini politici è riuscito in qualche modo a far partire forme di economia di tipo prevalentemente industriale dimenticando forse le vocazioni prevalenti del territorio di tipo agricolo, zootecnico, paesaggistico e turistico.

    Tra l’altro la politica dei poli di sviluppo concentrata intorno a Termoli, Boiano ed Isernia ha finito per penalizzare in maniera indiscutibile le aree interne del Molise centrale ed alto.

    A questo deve aggiungersi l’incapacità delle classi dirigenti di gestire fondi statali ed europei per stimolare la nascita di attività produttive attraverso incentivi fiscali agli imprenditori.

    Si è pensato piuttosto a sostenere per fini clientelari la nascita di un sottobosco di lavoro improduttivo nel settore amministrativo fino a creare la seconda provincia e tutta una serie di organismi come comunità montane, consorzi, unioni e tutta una serie di enti la cui utilità ancora oggi rimane incomprensibile.

    La stessa politica dei poli di sviluppo a livello industriale si è ripetuta su quello amministrativo, dei servizi sanitari e della rete scolastica e perfino universitaria con la disseminazione di strutture e sedi sul territorio non funzionali ai bisogni reali dei cittadini, ma ai feudi elettorali di questo o quel soggetto politico.

    Ciò che è avvenuto sul piano sanitario ha dimostrato con chiarezza che il colossale debito accumulato ci ha presentato all’esterno come una regione assistita e dunque incapace di gestire i fondi pubblici con razionalità.

    Tali problemi, spesso comuni ad altre realtà, creano per molti la necessità di ripensare l’attuale assetto istituzionale regionale e perfino di riportare allo Stato la gestione di taluni servizi come ad esempio quello sanitario.

    La scarsa affluenza ai seggi elettorali nelle ultime elezioni regionali sarebbe la dimostrazione di una sfiducia alta ed inarrestabile dei cittadini nei confronti delle classi dirigenti locali.

    Si è posta la questione di una revisione dell’attuale assetto istituzionale già negli anni ottanta del secolo scorso con le proposte del prof. Gianfranco Miglio e con quelle della Fondazione Agnelli indirizzate verso la creazione delle macroregioni.

    Successivamente ci sono state diverse proposte di legge per la creazione di queste regioni allargate da limitare drasticamente nel numero alcune delle quali non prevedono solo accorpamenti, ma perfino lo smembramento di talune realtà territoriali.

    Per ciò che riguarda il Molise ci sono proposte che la vedrebbero inserita nella cosiddetta Regione Adriatica con Abruzzo e Marche, altre con Abruzzo e Lazio, con l’insieme delle regioni meridionali o addirittura smembrata tra la Regione Adriatica e la Regione del Levante con Puglia e Basilicata.

    Noi pensiamo al riguardo che non si possa eludere un confronto ed una discussione aperta sul tema di un regionalismo nuovo ed adeguato ad una migliore organizzazione amministrativa del territorio, ma che tale questione vada affrontata senza improvvisazioni o, peggio ancora, dietro voglie di sudditanza o di sottomissione di intere comunità ed aree geografiche.

    Occorre allora fissare anzitutto principi e regole in grado di garantire a tutte le popolazioni del territorio nazionale uguale dignità, pari opportunità e precise garanzie di rispetto dei principi basilari della democrazia e dei diritti fondamentali della persona. Questo significa mantenere in ogni regione attuale possibilità reali di rappresentanza e tutti i servizi di natura sanitaria, giudiziaria, amministrativa, culturale, economica, fiscale, di polizia e di ordine pubblico.

    Serve allora fissare un presupposto fondamentale che riguarda la necessità che il discorso sull’autonomia regionale attuale e le possibili alternative venga visto non in una prospettiva limitata a talune aree locali, ma in un ordine complessivo riguardante tutto il territorio nazionale.

    È necessario poi domandarsi se l’abbattimento dei costi di gestione dell’attuale assetto regionale non si possa ottenere con riforme strutturali di riorganizzazione degli enti locali e subregionali e con una semplificazione amministrativa che ad esempio preveda una forte riduzione del numero dei consiglieri regionali, dei loro emolumenti, ma anche con un ridimensionamento delle consulenze e di talune figure di rappresentanza del tutto inutili.

    É bene ancora sottolineare che in eventuali ipotesi di accorpamento nessuna regione può perdere o vedere ridursi la sua identità culturale e storica e tantomeno addirittura, come alcuni ipotizzano, dissolversi nell’autonomia in una macroregione all’interno della quale vanno spalmati e ridistribuiti compiti, strutture istituzionali e funzioni evitando qualsiasi forma di squilibrio territoriale.

    In un processo di ridefinizione del regionalismo, quando si parla di spending review, non è pensabile fare confusione tra la riduzione dei costi della politica, spesso determinata da sistemi corruttivi nel sistema amministrativo, e di quelli della democrazia perché si corre il rischio di comprimere la partecipazione dei cittadini allontanando dagli stessi le sedi delle decisioni democratiche.

    Qualsiasi forma di aggregazione deve poi a nostro avviso costituirsi per così dire dal basso ovvero con iniziative dei consigli regionali e con referendum confermativo da parte dei cittadini interessati.

    Sul tema in questione il Molise fin qui è andato a rimorchio seguendo ipotesi provenienti dal vicino Abruzzo o da talune forze politiche come il PD o Forza Italia.

    Di recente l’associazione Ilbenecomune ha dedicato all’argomento l’intero ultimo numero della rivista “Glocale” dal titolo “Molise futuro prossimo”.

    È sconfortante fare certe osservazioni, ma nella presentazione della rivista a Campobasso  nell’aula di Palazzo San Giorgio il 18 gennaio eravamo appena in trentuno, quasi tutti ultrasessantenni, mentre in sala, ad eccezione di Vincenzo Cotugno invitato come relatore, non c’era neppure un esponente del Consiglio Regionale né alcuno dei candidati alle prossime elezioni politiche e regionali.

    Il Molise non può eludere un problema che si affaccia con prepotenza nel dibattito politico e, se vuol preservare la sua autonomia, deve occuparsene con urgenza per elaborare idee attraverso un gruppo di lavoro che veda impegnato allo stesso tempo il mondo istituzionale e quello intellettuale.

    Per mantenere la sua identità e l’autonomia, per le quali tanti manifestano a parole grande orgoglio, sono necessari a nostro avviso alcuni passaggi decisionali sul piano politico.

    Come si è fatto rilevare negli interventi per la presentazione della rivista “Glocale”, la nostra regione ha necessità di porsi il problema della tenuta dei costi degli attuali organismi amministrativi, di eliminare la struttura clientelare della società molisana, di pensare ad uno sviluppo economico alternativo di tipo produttivo ed innovativo, di rendere radicata, ma fluida la propria identità, di fare un’analisi approfondita su un possibile sviluppo di ordine demografico e culturale e di rafforzare la coesione socio-economica tra i suoi territori.

    Per mantenere un’autonomia istituzionale vi è la necessità di affrontare tali questioni prioritarie, costruendo, come dicevamo, un gruppo di studio e di elaborazione di idee senza continuare a vendere ciance spacciandole per progetti.

    di Umberto Berardo

     

     

     

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