RICEVIAMO dall’associazione venatoria EPS Abruzzo, guidata da Giacomo Nicolucci (al centro nella foto di apertura, ndr) e pubblichiamo:
La caccia di selezione al cinghiale in Abruzzo: un affare dell’Ufficio Complicazione Cose Semplici.
L’8 gennaio ultimo scorso è stato pubblicato il “disciplinare per la caccia di selezione al cinghiale”. Il 23 gennaio successivo è stata pubblicata una determina recante minimi colpi di lima per smussare alcuni devastanti conflitti che avrebbero lacerato il mondo venatorio abruzzese.
Chi volesse provare non solo a leggerlo, ma anche a capirlo, deve munirsi di taccuino e penna per prendere degli appunti da studiare e ponderare a parte. Ma sarebbe anche il caso di rivolgersi a persone specializzate a capire le cose difficili, come ad esempio i farmacisti, espertissimi nel decifrare le grafie incomprensibili dei medici. Anni fa un famoso zoologo e cacciatore ebbe a scrivere che per la caccia le regole devono essere sempre poche semplici e, soprattutto, condivise dal mondo venatorio. In questo caso, a fronte della necessità di avere margini più ampi per cacciare la invasiva specie cinghiale, è stato fatto tutto l’opposto. Se già la lettura e la comprensione del disciplinare costituiscono un atto d’impegno fuori dal comune, lo sarà in particolare la sua fattiva applicazione. Possibile solo da parte di persone spensierate e con tanto tempo libero, nonché risorse da investire, magari avvezze a rapportarsi con gli “Uffici Complicazione Cose Semplici” o ad eseguire per gerarchia ordini assurdi senza porsi il problema della loro legittimità o semplice logicità. Forse, meglio avrebbe fatto la Regione Abruzzo ad ammettere il fallimento del pessimo regolamento per la caccia al cinghiale e con questo il malriuscito confinamento delle squadre di caccia collettiva al cinghiale all’interno delle c.d. “zone”. Ed è un peccato che questa “impronta” caratterizzi anche il Piano Faunistico Venatorio in approvazione, quasi unicamente destinato alla improbabile “gestione” della specie cinghiale. Occorre prendere atto che i cacciatori abruzzesi, ormai presi in considerazione soltanto allorché vengono coinvolti nella pretesa di fronteggiare l’emergenza cinghiali, del tutto dimenticati invece negli altri aspetti sí ludici ma gestionali della caccia alle altre specie, sono stanchi di ricevere imposizioni obbligatorie di regole cervellotiche e di restrizioni inutili. Occorre anche prendere atto del fallimento e dei pericolosi risvolti della distinzione manichea fra la caccia collettiva al cinghiale, demonizzata, ma, ad esempio, per nulla attenzionata in modo da aumentarne la sicurezza d’esercizio, e della caccia individuale, apparentemente elevata all’empireo, ma di fatto costituente una finzione, come lo è già per il semplice fatto che nelle zone c.d. “non vocate” il prelievo viene consentito senza limiti quantitativi e senza distinzioni di sesso o classi di età, chiamasi questo “controllo” e non “caccia di selezione”: dopo l’effetto della decisione della Corte costituzionale “la toppa è peggio del buco”. Siamo, dunque, dinanzi all’ennesima regolamentazione calata dall’alto senza confronto, senza dialogo, senza conoscere a fondo le esigenze e le dinamiche della caccia abruzzese, non affatto omogenee per il territorio regionale, ma profondamente dissimili in ogni piccola realtà. Basta solo considerare che nelle zone interne ormai i cacciatori cercano i cinghiali con il lumicino. Nella Marsica o in alcuni settori esterni al Pnalm le squadre non superano i dieci cinghiali per stagione. In queste zone ai cinghiali si sono sostituiti mandrie di cervi, per i quali sarebbe opportuno aprire al più presto la caccia, ma gli dei ce ne scampino se ciò dovesse avvenire con queste modalità da procedure ministeriali. Sfugge, del resto, all’illuminato ufficio, che l’effetto, in mancanza cronica di un capillare controllo del territorio, è sempre quello o del disinteressamento dal prelievo, con buon sollazzo dei cinghiali nei campi, nelle strade e nei centri abitati, o quello della semplice e facile violazione delle regole imposte: in pratica l’effetto contrario a quello sperato. Valga, come esempio fra tutti, che: «In caso di abbattimento di capi che presentino anomalie fisiche evidenti (ferite, lesioni, anomalie del mantello ecc.) va immediatamente contattato l’ufficio veterinario della Asl competente per territorio» (art. 47 del Disciplinare). Dunque, qualora venga abbattuto uno dei tanti cinghiali sopravvissuti ad un incontro troppo ravvicinato con un veicolo, o qualcuno addentato invano dagli onnipresenti lupi, occorre contattare quegli uffici che sono quasi da pregare in ginocchio quando nei due giorni di apertura settimanale, per poche ore per giunta e salvo “imprevisti” (anche per chi ha compiuto 60 km in macchina per raggiungerlo), accettano di ricevere un pezzo di diaframma per l’esame trichinoscopico. Per non parlare del presunto espediente “antifurbi” del fotosegnalamento del capo abbattuto (pari a quello che svolge la polizia giudiziaria al momento dell’arresto di persone destinate al carcere), della verifica da parte del rilevatore biometrico (come previsto dall’Ispra, tali sono tutti i cacciatori di selezione che hanno frequentato e superato un corso il cui programma risponde alle Linee Guida del medesimo istituto) che impone una reperibilità da “guardia medica”, della consegna della “corata” all’improbabile Ufficio Asl che dovrebbe accettarla, reciderne il diaframma (prima mantenuto in conseguenza di un’eviscerazione da chirurgo vascolare) e restituire al cacciatore gli organi che a questo punto costituiscono rifiuti speciali e vanno smaltiti soltanto con l’ausilio di ditte apposite. Tutte attività clamorosamente inutili, se solo l’Ufficio Complicazione in parola si fosse diversamente speso per distribuire sul territorio centri di sosta/di controllo, idonei ad evitare già solo il disagio di indovinare il giorno giusto per supplicare presso qualche pio dipendente Asl la ricezione dei campioni per l’esame trichinoscopico, ma più opportunamente per garantire un monitoraggio dello stato di salute delle popolazioni più ad ampio spettro (la peste suina africana è alle porte e la pseudorabbia ogni tanto fa strage di cani), per offrire un luogo dove conferire animali di cui i cacciatori non sanno più cosa farne ed aprire, finalmente, la filiera corta per avere sul mercato locale, anche al dettaglio, trasformate e non, carni salubri, nonché organoletticamente e nutrizionalmente importanti. Ma noi, cacciatori abruzzesi, questa lungimiranza non la meritiamo: solo «obblighi», come l’ulteriore onere formativo per gli “operatori abilitati al rilevamento biometrico”, affetto da tutti e tre i vizi dell’atto amministrativo: illegittimità, incompetenza ed eccesso di potere, che produce senz’altro utili, ma economici e non certo per i cacciatori, o «sanzioni», come la “sospensione permanente” (dal prelievo selettivo), non ammessa nell’ordinamento giuridico italiano.
Giacomo Nicolucci