AGNONE – «Non sopporto un sistema che costringe al cappello in mano anche per l’esigibilità dei propri diritti». Un sistema in base al quale «la salute è diventata privilegio e non più diritto». Così Maria Amato, medico radiologo a Vasto e parlamentare della repubblica nella scorsa legislatura con le insegne del Pd, in materia di sanità. Più volte ad Agnone, da deputato, per sostenere e difendere il “Caracciolo”, ospedale di frontiera a servizio delle popolazioni di Abruzzo e Molise. Chi meglio di un medico prestato alla politica può fare il punto della situazione, anche alla luce del riconoscimento di ospedale di area disagiata che ad Agnone è rimasto sulla carta mentre altrove, ad Atessa, nel Sangro, pare si sia concretizzato in reparti funzionanti e nuovi servizi. Alla dottoressa Amato, donna libera e senza peli sulla lingua, abbiamo rivolto alcune domande in materia di sanità.
«Ecco ci hanno lasciato senza medici e senza macchine». Sue parole di qualche giorno fa. Parlava dell’ospedale di Vasto, ma sembra la fotocopia di ciò che accade ad Agnone. Gli ospedali “minori” sono destinati a cosa?
«Dipende da come le Regioni disegnano la rete ospedaliera, dipende da come la politica guarda all’insieme del territorio, in cui la montagna, quella non ricca degli sport invernali, ha un ruolo marginale. Siamo passati dalla capillarizzazione dei servizi (scuole, sanità, uffici postali, servizi municipali) come contrasto allo spopolamento delle aree, agli accorpamenti selvaggi per un risparmio che non sempre è stato così significativo; da una rete stradale fatta di chilometri di asfalto a servizio di poche case, a strade decadenti e franate che isolano interi comuni. Io sono figlia di un tempo in cui si riconosceva alla gente che abitava le aree interne il diritto derivante dalla tutela di quel territorio, una sorta di guardiani della montagna a vantaggio di tutta la collettività, questo ruolo di servizio, la loro fatica di vivere una quotidianità difficile in cambio di quel costo in più per la collettività per la garanzia dei diritti primari almeno di scuola, di salute. Se non si inverte la visione che sanità è uguale costo piuttosto che investimento, che la salute è diventata privilegio e non diritto, gli ospedali più piccoli e senza specializzazione sono un fardello poco sostenibile dalla intera collettività».
Nei giorni scorsi il direttore amministrativo dell’Asrem, Forciniti, ha dichiarato che, nonostante i concorsi fatti, i medici vincitori non vogliono prendere servizio nella sede di Agnone. Le pare possibile? L’ospedale non è un servizio pubblico da assicurare? Non si chiude una caserma dei Carabinieri perché i militari non vogliono fare servizio in quella sede disagiata. Non funziona così anche per i medici?
«Ormai non si fanno più i concorsi con destinazione specifica, si fanno per ASL o Asrem, e qualche volta con l’accordo tra le aziende ad attingere ad una graduatoria comune, il medico può rifiutare quella destinazione proposta, ovviamente decadendo dalla graduatoria, o quella destinazione o niente, seguendo criteri trasparenti che associno alla scelta della destinazione. Si può ovviare come si fa, non senza difficoltà in altre Regioni con una organizzazione dipartimentale vera, assegnando risorse sufficienti e non sempre risicate al centro di riferimento, facendo ruotare i medici nei centri più periferici, con un accordo anche sulla premialità, che aiuti a superare la resistenza dei medici stessi di andare a lavorare in un ospedale distante».
Per sopperire alla carenza di personale al “Caracciolo” di Agnone si propone una sorta di turnazione reiterata degli ordini di servizio. Potrebbe funzionare a suo avviso?
«La scelta della turnazione più che con ordini di servizio dovrebbe essere frutto di un accordo tra professionisti e azienda, nell’ottica della organizzazione dipartimentale».
Sempre in occasione dell’audizione del direttore Asrem in Consiglio comunale ad Agnone è venuta fuori la solita tematica degli accordi di confine. Lei ha in qualche modo contribuito a scriverli? Esistono davvero o sono una invenzione propagandistica di Paolucci e Frattura, come l’emodinamica a Vasto?
«No e non sono a conoscenza dei risultati, sempre affidati a comunicazioni a mezzo stampa e non sempre congruenti. Certo guardando al confine tra Abruzzo e Molise con buon senso si potrebbe individuare più di una sinergia, sia sulla costa tra Vasto e Termoli, sia nelle aree interne, nella emergenza come nelle specifiche specialistiche, e gli accordi di confine sono una cosa davvero seria, che implica responsabilità e risorse, oltre che una visione comune delle politiche sanitarie. Non una guerra tra poveri, come si stava trasformando la questione emodinamica, piuttosto possono essere, con nuove tecnologie e con la telemedicina, una risposta alle necessità del nostro territorio».
Una Tac non funzionante da un anno e mezzo al “Caracciolo”. Da medico, da ex parlamentare e da cittadina semplice: ma le pare possibile? Perché accadono queste cose? Di chi sono le responsabilità?
«La gente della montagna va rispettata per prima cosa con strade percorribili. Per il resto se la Regione ha deciso che Agnone con il suo ospedale è nella rete ospedaliera, tutto nella struttura deve essere efficiente, tac compresa. La radiologia senza tac è superata da tempo».
Ospedale di area disagiata. Lei è stata scettica sin dall’inizio perché ritiene sia una formula “pericolosa” per l’utenza? Ci faccia capire meglio.
«Non credo che gli ospedali di area svantaggiata, così come sono normati siano una risposta sicura proprio perché non vengono definiti gli standard minimi, non c’è nell’elenco delle figure mediche un responsabile della struttura, uno che si confronta con la direzione sulle scelte e sul budget, e non c’è obbligatoriamente un rianimatore h24. Senza standard minimi in caso di necessità si vanno a prendere nell’ospedale di area svantaggiata le risorse umane e le tecnologie che servono all’ospedale di riferimento per cui invece la legge prevede gli standard minimi, la storia dell’intensificatore di brillanza è la sintesi di quello che ho detto».
Se non l’ospedale di area disagiata, per Agnone quale potrebbe essere la soluzione ideale? A parte andare via per sempre da queste “terre alte” come amava dire il suo “amico” D’Alfonso.
«Tralascio il passaggio sul “mio amico” D’Alfonso di cui non condivido la visione. Per Agnone ci vuole la struttura ospedaliera che c’è come area svantaggiata più il rianimatore h24. E ci vuole una Regione e una Direzione Aziendale che ci creda, inoltre per posizione e tradizione di assistenza dovrebbe essere parte degli accordi di confine».
Atessa, in Abruzzo, ospedale di area disagiata, almeno prima del voto, ora già spuntano fuori dei problemi e dei distinguo. Cosa ne sa di quell’altra realtà sicuramente meno marginale rispetto all’Alto Molise?
«Per l’Abruzzo vale lo stesso, senza forzature però, altro è la montagna altro è un centro come Atessa, per cui sarebbero possibili diverse soluzioni: la stessa cosa per Ortona, che pur essendo vicina a Chieti ha conservato il Pronto Soccorso ed è diventata riferimento per alcune specialistiche che hanno caratterizzato l’ospedale; avevo proposto di sentire l’Inail per realizzare in un posto simbolo, la Val di Sangro, un centro specializzato per gli infortuni sul lavoro, tipo Volterra. Sono aumentate gli incidenti sul lavoro, e la Politica sulle morti bianche dovrebbe interrogarsi, perché sono un segnale che spesso si associa a precarietà e mancato rispetto delle regole, un posto che fosse, oltre che luogo di diagnosi, cura e riabilitazione, una bandiera, poteva essere un buon segnale. Oppure se si vuole ridare ad Atessa l’ospedale, si interviene sulla rete ospedaliera, poi sull’atto aziendale, e gli si restituisce il ruolo di ospedale di base, senza mistificazioni. Le mezze soluzioni, quelle discrezionali durano il tempo di una campagna elettorale».
A pochi giorni dal voto lei ha dichiarato: «Se vince Legnini, anche se Paolucci viene eletto spero non stia alla Sanità». Perché questo giudizio così negativo su Paolucci? Per le zone montane qualcosa ha fatto, medicalizzando il 118 di Castiglione ad esempio.
«Non ho condiviso una parte importante delle scelte fatte. Tra tutte il Progetto Maltauro per il nuovo ospedale di Chieti, sia per lo strumento projet financing che per una scelta che non risolve la questione DEA di II livello CH-PE, e un rapporto concorrente sta sanità pubblica e privata. Troppe promesse che avevano poche possibilità di essere realizzate, troppa ingerenza nella gestione, soprattutto in provincia di Chieti, l’ottemperanza ad un sistema di tagli pagato essenzialmente dagli ospedali pubblici. Sicuramente è positiva la medicalizzazione del 118, come pure lo spazio dato agli screening oncologici ma la medicina territoriale che doveva decongestionare l’ospedale non è cresciuta, e paradossalmente ha perso qualche pezzo. Senza il potenziamento della medicina territoriale, senza un lavoro costante in sinergia con tutti gli operatori per migliorare la cultura sanitaria, l’appropriatezza, in cui molti vedono la negazione di prestazioni, sarà fuori dalla nostra portata. Le liste d’attesa sono frutto di carenza di risorse umane e tecnologiche e di inappropriatezza, non serve accelerare su un punto se non si mettono risorse su macchine e operatori. Poi Vasto: la Tac 64 strati, l’emodinamica, la chiusura della Gastro, il Pronto Soccorso, la Cardiologia ancora senza Primario, due anni per il Primario di rianimazione e tutto il resto che è diventata ” la solita lista della spesa di Maria Amato” e che mi ha trasformato in una voce fastidiosa».
Lei non è un politico, si vede lontano un miglio, ma è stata parlamentare del Pd per cinque anni e ha lavorato su tematiche importanti quali ad esempio il fine vita, l’autismo, la cannabis terapeutica, gli screening neonatali. Chi lavora bene viene solitamente premiato dal partito, invece è stata fatta accomodare alla porta. Cosa è successo? Perché questo trattamento da “appestata”?
«C’erano progetti personali per cui ero un ostacolo, e sono troppo libera per un sistema in cui una opinione contraria viene vissuta come un attacco alla leadership. Non sopporto un sistema che costringe al cappello in mano anche per l’esigibilità dei propri diritti, un sistema in cui ancora esiste la clientela, o la costruzione di progetti per le ambizioni dei singoli piuttosto che per visione della società e bene comune. Io per carattere, per scelte di vita non vado bene, sono io la prima a riconoscerlo. Sono fortunata, ho potuto scegliere, preferisco la medicina, in particolare il lavoro che amo in un ospedale pubblico. Comunque ha usato il termine giusto, appestata, ad indicare un lungo, non facile periodo di isolamento a fronte di una bellissima esperienza in Parlamento».
Francesco Bottone
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