Da almeno trent’anni non succedeva in Italia un fatto di cronaca di simile violenza contro un iscritto all’Ordine dei giornalisti. L’ordigno esplosivo che ha distrutto le auto del giornalista d’inchiesta Sigfrido Ranucci e dei suoi congiunti è una delle tante intimidazioni cui ogni giorno, a tutti i livelli, e in tutto il Paese, vengono sottoposti i cronisti. Professionisti o pubblicisti che siano.

Non tutti sono Ranucci, ovvio, non tutti riescono a fare le sue inchieste, anche perché non tutti i colleghi hanno alle spalle una corazzata come la Rai, con tanto di soldi, mezzi e uffici legali. Le minacce, tuttavia, le intimidazioni, le liti temerarie, le querele e le richieste economiche per zittire i giornalisti, anche quelli di provincia o di montagna come noi, sono all’ordine del giorno. La storia di questo sfigato Paese, dove la libertà di stampa è una chimera inarrivabile, è intrisa del sangue di tanti giornalisti che hanno pagato con la vita l’aver osato “scrivere” addosso ai potenti di turno.

Chi firma questo corsivo è stato ed è fatto oggetto di minacce, trascinato in tribunale con richieste da milioni di euro solo per aver fatto il proprio mestiere, quello di giornalista (precario, ndr). Perché la libertà di stampa e il diritto d’informazione valgono ovunque, a Castelverrino come a Castelvetrano, a Schiavi di Abruzzo come a Casal di Principe.

Vivere con lo scrivere è difficile e anche pericoloso, perché ti fai nemici ovunque e in continuazione. C’è quello che ti querela, lo stimato professionista che al telefono ti dice «la prossima volta vengo a prenderti a casa», quello che chiama il direttore per lamentarsi o quell’altro che scomoda il presidente dell’Ordine dei giornalisti regionale, c’è il bulletto di paese che ti minaccia con lo sguardo ogni volta che passa solo perché hai scritto un pezzo di cronaca giudiziaria che lo riguarda. Non c’è bisogno di essere la prima firma di un quotidiano nazionale per essere esposti a rischi e pericoli collegati al mestiere di giornalista. Anzi, probabilmente è vero l’esatto contrario: sono più esposti i cronisti di provincia, quelli che tutti conoscono e che tutti sanno dove abitano.
Non tutti sono Ranucci, dicevamo, non tutti posso avere una scorta armata pagata dallo Stato. Ed è anche giusto che sia così, ci mancherebbe, ma sarebbe altrettanto giusto concedere ai giornalisti la facoltà e il sacrosanto diritto di difendersi. Perché la difesa della propria incolumità e soprattutto quella dei propri cari e congiunti è sempre legittima e anche doverosa. E allora, di grazia, perché ai magistrati è consentito il porto d’armi per difesa personale senza licenza alcuna, mentre ai giornalisti no?
Francesco Bottone