L’AQUILA – Colangelo è uno scultore, non fa lo scultore: questo il punto di partenza di ogni riflessione sulla sua arte e sulle sue opere. Ricerca e lavoro incessanti e coerenti i suoi e contraddistinti da un’origine identitaria altrettanto radicale, rintracciabile principalmente nella montagna, “madre” di roccia e di storia.
Le opere di Giuseppe Colangelo sono così tanto identitarie da poter confluire quasi naturalmente – vedi Arrosticino o Guerriero – in una mostra tematica come questa dedicata all’Abruzzo, quali icone di una civiltà locale, ma esse sono anche opere astratte protese ad interpretare un’idea, o un concetto, capaci perciò di superare ogni confine geografico e culturale, raccontando soprattutto la vita che pulsa nella materia cui mette mano lo scultore quando si confronta con la pietra da sbozzare, levigare, lucidare.
In Abruzzo in pietra, è la totalità dell’essere che affiora da ogni opera, microcosmo nel quale si coagula, con la vita dell’autore – i l suo vedere, sentire, credere, vivere, gioire e soffrire – anche la nostra vita: ecco che il travertino rosso di Maggiociondolo partorisce quasi i coaguli in boccio di pietra della Majella, primi vagiti dell’essere appena venuto alla luce, mentre il marmo statuario lucente e compatto che forma una sorta di cresta in Germinazione, irrompe nello spazio quasi espulso dalla calotta ovoidale in noce, cui però rimane ancorato, forse pure comodamente allettato in essa, come il nascituro o l’appena nato nel seno materno.
Energia dunque, è quello che Colangelo sembra voler intercettare e far confluire in ogni opera, e porgere ai nostri occhi e al nostro sentire quando dà forma ai suoi petali di pietra tagliati di netto nella pietra bianca della Majella o nel marmo di Carrara e mentre li innesta in altri marmi o in legni di colore naturale, evidentemente evocativi della terra e delle piante che in essa affondano le proprie radici, traendone linfa vitale. Così fa quando annoda il marmo in Tralcetto 2014, e così anche in Omaggio allo zafferano, dove il prezioso fiore è solo apparentemente in bilico sulla sua base, percepibile come un corpo oscillante, ma ben saldo in essa.
Ver sacrum, infine, o “della sacralità della natura”: un’opera in cui si può riconoscere appieno la poetica dell’autore, cioè scolpire la pietra giammai per rappresentare il vero, bensì per cogliere ed evocare il sacro della natura e della vita in cui siamo immersi.
Un compito etico allora quello dell’artista, che in Abruzzo in pietra si fa vero e proprio manifesto della Creatività in nome della quale la mostra stessa è nata, capace com’è di interpretare il senso dichiarato di tutta la Festa: la creatività non è una caratteristica di pochi individui, ma una dote potenziale di tutti gli esseri umani. Gli stessi a cui Colangelo parla con le sue opere, chiedendo loro di soffermarsi a guardarle, per riflettere su quello che richiamano alla mente, allo spirito ed ai sensi…..
In “Unsologiorno – l’Abruzzo in pietra” però c’è ancora dell’ altro, se con l’architettonico menhir-Guerriero, Colangelo sembra sì voler riscoprire la solennità e la potenza immaginifica degli arcaismi europei e portare nel mondo globale l’eco di un passato remoto e suggestivo, ma anche suggerire nuove prospettive simboliche che parlano di un futuro interpretato artisticamente rendendo attuale il dialogo, fra civiltà come fra materie: nel Guerriero e in tutta l’installazione aquilana, grazie all’utilizzo di marmi diversi per colore e struttura, e composizioni di forme apparentemente in-compatibili, il fare dell’arte agisce e risolve, conferendo loro stabilità e durata.
Elena La Morgia