AGNONE – «Il Molise nel Sud ha bisogno di una nuova stagione da un lato di infrastrutturazione e dall’altro di rilancio degli investimenti pubblici privati perché così si crea lavoro». Queste le chiacchiere da bar lanciate in favore di telecamere dal ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, in visita, nei giorni scorsi, in Alto Molise. Poi c’è la realtà, quella che si discosta nettamente dalle parole ministeriali che prendono il sapore della presa in giro. Ci sono i fatti, concreti, reali, ci sono operai, a decine e decine, che rischiano di restare a casa dopo venti, trenta o quaranta anni di lavoro, perché l’Italia è un paese dei balocchi e il costo del lavoro è esorbitante, tasse da strozzini, e così le aziende fuggono all’estero. Delocalizzano, si dice, un termine soft per dire che lo stabilimento di Pozzilli della Unilever sta per chiudere i battenti. Tra i lavoratori che rischiano, dalla sera alla mattina, di restare senza un lavoro e quindi senza la dignità di chi assicura, con il proprio sudore, un piatto di pasta alla propria famiglia, anche decine di operai pendolari dell’Alto Molise. Tra questi Andrea Carosella, 38 anni, da otto in Unilever, sposato, senza figli e Mario Mastronardi, 60 anni, da 38 in fabbrica, un “veterano”, sposato, con due figli, entrambi operai di Agnone, entrambi alle prese con la crisi aziendale che sta travolgendo un intero territorio. «La sensazione che abbiamo avuto è che non c’è un futuro per noi, per le nostre famiglie, per l’intero territorio. La prospettiva inevitabile è che siamo obbligati a lasciare la nostra terra, perché qui non ci fanno più lavorare. E’ veramente triste, ma è così.» denuncia Andrea. Gli fa eco il collega anziano, un vero “veterano” Mario: «L’amarezza maggiore che abbiamo è che l’azienda oggi è sorda e muta rispetto alle nostre richieste. Il problema è la delocalizzazione: non poter continuare a produrre più quello che per quaranta anni è stato possibile fare in Molise e a Pozzilli. Siamo stati bravi e competitivi fino ad oggi, ora all’improvviso diventiamo inutili. Tutti a casa, così, senza alternative». «Il clima che si respira oggi – continuano i due amici e colleghi – è un qualcosa di mai visto fino ad oggi. Eravamo orgogliosi di essere dipendenti della Unilever, eravamo invidiati dai colleghi di altre fabbriche, perché effettivamente stavamo bene, meglio degli altri. Noi operai siamo stati sempre al primo posto in quell’azienda. Veniva prima l’uomo, ciascuno di noi, le nostre famiglie, poi il profitto. Oggi non è più così – sottolinea il veterano Mario – e automaticamente la persona, l’operaio, viene messa da parte. Passa in secondo piano. Abbiamo seguito gli incontri con i sindacati, con la Regione Molise, le richieste al Ministero fino all’ultimo vertice a Campobasso nella sede della Giunta regionale. Sono arrivati anche i pezzi grossi dell’azienda, per la prima volta, da Rotterdam, ma in definitiva, dopo un tavolo durato fino alle due di notte, la montagna ha partorito il topolino. L’accordo firmato dice poco e niente per noi. Non abbiamo nessuna certezza e nessuna fiducia nelle istituzioni». «Sono stato sindacalista in passato. – aggiunge Mario – Oggi i sindacati potrebbero fare qualcosa, ma poi si va dietro alle sigle, alla politica sindacale, agli ordini di partito e alla fine non si ottiene mai nulla in favore dei lavoratori». «Venticinque operai dall’Alto Molise, – riprende Andrea – operai e pendolari; per noi la chiusura della Unilever significherà che ci troveremo a malincuore a dover abbandonare la nostra terra. Abbiamo fatto sacrifici per tentare di far credere, a noi stessi, alle nostre famiglie, ma anche all’esterno, al resto d’Italia, che esiste il Molise. Tutto inutile. Le istituzioni sono lontane, l’azienda è lontana. Siamo stati abbandonati. Ci costringono ad andare via, a lasciare Agnone e l’Alto Molise. Lo spopolamento così aumenta, ci vuole poco a capirlo». «La solidarietà dei colleghi, degli studenti, dei molisani, del territorio fa sempre piacere. – aggiunge in chiusura Mario – Presidiamo la fabbrica 24 ore su 24, da giorni, con i fuochi accesi. Anche la Chiesa ci è stata vicino, il vescovo Camillo Cibotti ci ha esortato a combattere, a non smettere la protesta. Dopo quaranta anni di fabbrica è dura pensare di rimettersi in gioco e rientrare nel mondo del lavoro, ma il mio pensiero va ai colleghi più giovani, lontani dalla pensione, che dovranno reinventarsi qualcosa per campare le proprie famiglie. Quando ho iniziato io l’economia girava anche qui in Molise. Oggi la situazione è diversa: qui è impossibile continuare a lavorare, i miei colleghi andranno via». Purtroppo… o per fortuna per loro e per le loro famiglie. Intanto riecheggiano al vento le parole del ministro Provenzano: «Servono investimenti pubblici e privati perché così si crea lavoro».
Francesco Bottone