L’effetto impressionante della mostra di De Chirico -tenutasi nel Palazzo dell’Ex GIL (Gioventù Italiana del Littorio), uno dei più belli esempi di architettura piacentiniana, miracolosamente salvato dalla demolizione verso la fine degli anni 80, metà degli anni 90, da un assalto quasi iconoclastico e smemorato, voluto dall’allora governo regionale e che potrebbe essere allestito come nuova sede del Consiglio Regionale molisano, data la bellezza della sua elegantissima pavimentazione e dei suoi interni – è la particolare aereità e luminescenza delle pitture di De Chirico, i colori irripetibili e meravigliosi, le forme che egli non ama definire come surrealiste ma che non possono nemmeno definirsi come realiste o rappresentative della realtà oggettiva.
Nella sua lunga intervista, che viene rappresentata all’interno della mostra, traspare una sicurezza nell’uso dei pennelli, una mano fermissima (aveva già 85 anni a quell’epoca); occhi straordinariamente profondi ed investigativi, da mettere soggezione a chi lo osserva e lo ascolta; egli rappresenta un mondo interiore incredibilmente vario, complesso, filosoficamente profondo e letterariamente coltissimo.
De Chirico non era soltanto, infatti, un grande pittore, ma anche uno scultore, un romanziere, un musicologo, che amava molto il fratello Savinio, importante letterato del 900, nonché, a sua volta, pittore e musicologo raffinatissimo.
Passò, Giorgio De Chirico, una vita estremamente interessante, molto poco avventurosa, come lui stesso la definiva, normale, in una casa bellissima a tre piani di fronte a Trinità dei Monti, dove si trova la Barcaccia, oggi, sfregiata, ed aveva uno scenario davanti a sé a dir poco stupendo.
Lavorava con calma, con estrema calma, e solo di pomeriggio per alcune ore, mentre la mattina soleva alzarsi tra la 11 e le 12: una passeggiata a Piazza di Spagna, una visita brevissima al Caffè Greco, dove un altro celeberrimo pittore, Renato Guttuso, lo dipinse intento a bere un caffè, da una di quelle celebri tazzine di ceramica smaltata, che il caffè Greco vendeva, poi, ai suoi clienti a caro prezzo.
Una boccata d’aria nel suo terrazzo di Piazza di Spagna, ed incessante fu il suo lavoro, senza sosta, quasi senza pause, giorno dopo giorno.
Era sposato prima con Raissa Gourievitch Krol, e, poi, con Isabella Far, che fu anche la sua amministratrice e manager; non aveva avuto figli, ma diceva “di avere famiglia”, e di dovere lavorare per essa : “la famiglia deve mangiare”: quasi a volere dire, con una punta di sublime ipocrisia, che senza il lavoro costante non avesse la possibilità di mantenerla.
Era un uomo schivo, nella intervista rispondeva con sicurezza e con grande proprietà di rappresentazione.
Amava prima con carboncino disegnare sulla tela, che spesso preparava lui stesso o che comprava dai rigattieri del luogo, e, poi, con un lento, sicuro, progressivo tratto del carboncino, in una rappresentazione programmata, che aveva già dall’inizio in mente, stendeva, con dei pennelli che definiva morbidi, il colore di una bellezza unica, in guisa che, alla fine, disegno e pittura, producevano un effetto di straordinaria bellezza estetica e di una forza letteraria, storica, molto spesso ispirata al mondo classico della Grecia antica e persino filosofica.
Amava, infatti, leggere Nietzsche e Schopenhauer; aveva letto quasi tutte le opere di Apollinaire che aveva personalmente conosciuto.
I suoi cavalli, i suoI palazzi metafisici, posti in maniera perfetta sullo sfondo delle tele, in una strana figura in cui egli stesso si presentava come avvolto da grumi di visceri, che potevano rappresentare tutto a parte la bellezza, danno effettivamente dei brividi.
Ho visto nella mostra gente rabbrividire, come Mons. Bregantini, Arcivescovo di Campobasso, rigorosamente vestito in borghese, di fronte a tanta inimmaginabile bellezza.
Una testa di cavallo mostruosamente umana, in cui De Chirico rappresentava se stesso, con gli occhi ingravescenti, apparentemente freddi, spietati ed indagatori e, poi, figure antiche e moderne, figure dell’antica classicità greca, la cui cultura, peraltro, egli aveva assorbito sin dall’infanzia, essendo nato in Grecia (Volòs 1888 – Roma 1978) .
Migliaia e migliaia sono state le opere realizzate: i colori e i disegni sono inimitabili, unici, nella storia della pittura del 900.
Colori ambrati, colori scurissimi, come quelli che di solito accompagnavano la costruzione dei tendaggi: dorati, gialli solari, pallide lune.
Nella intervista, mentre parlava, egli, allo stesso tempo, dipingeva, capace di avere un programma già completo nella mente, dal quale nessuno riusciva a distoglierlo e mostrando allo stesso tempo, in una sorta di dissociazione, capacità di rispondere alle domande varie e, talvolta, tendenziose, dell’intervistatore.
La gente osservava incantata questa copiosa, esplosiva raccolta dechirichiana, esposta nelle sale dell’Ex GIL.
Aveva naturalmente, come tutti i geni, qualche tic particolare : non amava, ad es, la parola foschia, anche quando questa esisteva sul serio e non poteva essere altrimenti chiamata, preferendole la parola nebbia; non amava, inoltre, l’espressione “a prescindere”, il cui padre spirituale e nobile, era stato niente di meno che il suo quasi coetaneo, Principe Antonio de Curtis, in arte Totò.
E quella lunga gradinata per accedere ai piani inferiori del palazzo rosso ocra, già destinato alla educazione ginnica dei ragazzi del ventennio fascista, sembrava esattamente la riproduzione metafisica di uno dei palazzi dipinti da De Chirico.
Che Dio salvi, sempre, l’ex Palazzo GIL, un palazzo, come detto, di purissima arte piacentiniana, razionalista, quasi metafisica che ebbe a costellare gran parte delle città italiane nel celebre, vituperato ventennio.
Salviamone anche l’anima interna, se possibile, e restituiamo al Consiglio Regionale, anche per la sua vicinanza al palazzo della Giunta regionale, la sua funzione rappresentativa.
Franco Cianci