Il lavoro prima di tutto, al servizio della gente e in particolare dei più piccoli. In ogni ora della giornata e con qualsiasi condizione meteo avversa, don Ercolino Marinelli, medico pediatra di Agnone ha visto nascere e curato migliaia di bambini. In ospedale o nelle frazioni più sperdute dell’alto Molise, ha sempre operato in maniera impeccabile seguendo la stella polare del giuramento di Ippocrate. Disponibile, conosciuto e apprezzato da tutti, il decano dei camici bianchi agnonesi è stato sentito da l’Eco tramite un intervistatore d’eccezione, quale suo figlio Italo che da mesi cura la rubrica del mensile dedicata ai personaggi della società civile agnonese che hanno fatto la storia della cittadina dal dopo guerra ad oggi.
di Italo Marinelli
Un medico in una famiglia di avvocati.
Sì, mio padre, tanto buono quanto severo, era avvocato, come mio fratello Giovanni, mentre Enrico è diventato Prefetto. Anche i Tirone, dalla cui famiglia veniva mia madre Lucia, sono tutti avvocati e notai di successo. Io ho scelto la facoltà di Medicina.
A Roma?
Si, erano tempi duri; una sera con Mimmo Pellegrino che studiava con me ci dividemmo per cena un uovo fritto. Ma eravamo giovani, Roma era tranquilla e bellissima, avevamo grandi maestri come Frugoni e Valdoni. Nonostante una brutta meningite tubercolare mi sono laureato con lode e ho cominciato subito a lavorare. Sono tornato in Agnone e poi mi sono specializzato in Pediatria e successivamente in Igiene e Medicina Preventiva.
Ti sei sposato presto?
Sì, con una ragazza di Pescopennataro, Maria Antonietta, che era bellissima e che è stata la mia vera fortuna. Orfana di guerra, era maestra come la madre Anna. Con lo zio Francesco, uomo di grande cultura, sono venuti a stare tutti in casa con noi. Con te e Lucia eravamo una bella famiglia allargata. Poi più tardi è arrivata quella peste di Maria Pia.
Dove hai cominciato a esercitare la professione?
Facendo il medico condotto a Belmonte del Sannio, dove ho trovato persone meravigliose, molto buone, passionali e amanti del buon bicchiere. Ho lavorato anche all’Omni, Opera nazionale maternità infanzia, una delle poche cose buone fatte dal fascismo. Allora in Alto Molise c’erano centinaia di bambini. Poi sono stato a lungo medico della mutua a Agnone. Ho avuto tanti clienti, ma devo dire che la mia fortuna professionale la devo soprattutto ai contadini. Montagna, Fontesambuco, Sant’Onofrio, Villacanale le conoscevo casa per casa, ricordavo i nomi dei bisnonni e dei nipoti. Quando mi candidai alle elezioni comunali con il Psi le contrade mi diedero una valanga di voti. Spesso dovevo andare a piedi per fare una visita o una terapia, anche di notte. Alla fine capitava di restare a mangiare nelle masserie, mi offrivano delle ottime cene con prodotti caserecci e vino locale. Per non parlare dei polli di Natale, ne arrivavano a centinaia, e delle uova di Pasqua. Qualcuno invece pagava le visite col grano.
Anche mia moglie ha sempre insegnato in campagna e si è trovata benissimo.
All’epoca non c’era laboratorio di Analisi, il medico aveva pochi strumenti diagnostici.
Mi ero organizzato. A casa ho ancora l’elettrocardiografo, il microscopio e la centrifuga. Potevo fare le analisi essenziali, l’esame delle urine, l’emocromo, la glicemia. Ho seguito molti infarti a domicilio, anche se spesso chiedevo il consulto a cardiologi che venivano da Roma o da Napoli. Devo dire che sono andati tutti bene, forse sono stato fortunato.
Poi l’ospedale, hai cominciato come assistente fino a diventare direttore sanitario.
Si all’inizio in Medicina, poi come sezione staccata della Pediatria, poi finalmente il reparto, grazie alla legge Mariotti, che obbligava ogni ospedale ad avere i reparti di Medicina, Chirurgia, Ostetricia e Pediatria. Ricordo il prof. Leandro Carile, persona di grande fascino e cultura, Franco Porfilio. Le radiografie le faceva Armando Masciotra. In Chirurgia Salvatore Chiantese, in Otorino Marino D’Onofrio.
Com’era il rapporto tra medici?
Da giovane medico in Agnone i miei maestri e punti di riferimento sono stati don Luigi e don Ciccio D’Onofrio. Un collega con cui condividevo esperienze e difficoltà era Sergio Labanca. In ospedale tra coetanei litigavamo spesso, ma ci volevamo bene. Facevamo degli scherzi micidiali. Una volta Carile e Porfilio, mentre ero di guardia, mandarono il portiere dell’ospedale Enea Giuliani a casa mia facendosi dare dalla cameriera, Argentina Di Iorio, anche lei di Belmonte, salsicce, caciocavalli, pane salame e vino. La mia cantina era sempre molto ben fornita, erano regali dei pazienti. Poi mi offrirono la cena e solo alla fine, quando chiesi chi avesse offerto tutto quel ben di Dio, mi rivelarono che era tutta roba mia. Un’ altra volta Carile attaccò sul parafango della Maggiolino Wolkswagen di don Peppe Delli Quadri, parroco di San Biase ed amministratore dell’ospedale, un adesivo con la scritta “mi piacciono le donne”. Scoppiò il finimondo.
Don Peppe se la prese?
Venne a casa dicendo che mi doveva ammazzare ma poi come sempre facemmo pace. Era un vulcano, presidente della Pro loco, organizzatore del Ferragosto Agnonese, musicista. Con lui, il capo dell’ufficio tecnico Renzo Cerimele e Luigino Orlando, perito dell’Istituto Industriale, ci vedevamo tutte le sere per la passeggiata sul corso, la fermata nella farmacia di don Nicola Falasca e alla fine a casa mia per un bicchierino o una cenetta. Mia moglie ha sempre cucinato molto bene.
Dove si trovava il reparto?
Nell’edificio che poi è stato la sede dell’amministrazione dell’ospedale. C’erano venti posti letto, sempre occupati. Nascevano tanti bambini e avevamo ricoverati, oltre che dall’Alto Molise, da tutta la regione ed anche dall’Abruzzo.
Che patologie seguivi?
Soprattutto malattie infettive, che potevano essere gravissime. La mortalità infantile era alta negli anni ’50 e ‘60. Ho curato decine di meningiti e tantissime gastroenteriti, che allora erano una cosa seria. Prima della vaccinazione obbligatoria c’erano la poliomielite, la difterite. Molte tubercolosi. E anche brucellosi e cisti da echinococco. Comunque per molto tempo oltre che i bambini ho curato anche tanti adulti come internista.
Hai mai pensato di lasciare Agnone?
Ho avuto l’opportunità di fare il primario di Pediatria a Campobasso, ma ho rinunciato. Ero troppo legato al mio paese, alla mia casa, alla mia famiglia, ai miei pazienti.
Quelli a cui sei stato più legato?
A tutti, ma in particolare due. Tonino Trapaglia, costretto nella sedia a rotelle da piccolo. Un poeta, un ragazzo dal cuore grande, che abitava in una contrada di Belmonte del Sannio con una madre eroica e che aveva una grande sensibilità. E Giuseppina, una bambina di Poggio Sannita morta per leucemia. All’epoca in Italia la terapia era agli albori e per tentare di salvarla la portai a Parigi del professor Mathè, un luminare. Lui stava sperimentando i primi protocolli per la cura di questa terribile malattia. Ricordo due cose di quel viaggio: il rimprovero del professore, che mi disse “voi italiani non conoscete la matematica”, ed il fatto che all’andata presi l’aereo ma al ritorno preferii il treno, perché l’esperienza del volo non mi era piaciuta per niente.
Come ti aggiornavi professionalmente?
Non mi interessava tanto andare a congressi o convegni, allontanarmi da Agnone e dai miei pazienti mi è sempre pesato. Preferivo studiare riviste e libri in inglese, la Clinica Pediatrica del Nord America, il Conn di Terapia Medica. Le novità in campo medico sono sempre venute dagli americani.. Così mi allenavo anche con la pratica della lingua. La conoscenza delle lingue straniere è fondamentale. Come pure quella del latino e del greco. Ho sempre letto con facilità l’inglese, anche se la mia pronuncia lascia un po’ a desiderare.
Anche se a volte la usavi un po’ eccentricamente…
Si, da medico sociale della Polisportiva Olympia Agnonese andavo spesso in panchina e, quando un guardalinee o un arbitro si comportavano male, gli dicevo quattro paroline…in inglese, così non mi capivano.
Hai avuto una grande passione per il calcio.
Certo, tutte le domeniche ero alla partita, o da spettatore o da medico sociale. Sono stato anche presidente della Polisportiva. Ricordo quando giocava mio nipote Franco Giorgio. Era un fuoriclasse. Dato che avevo una bella auto, la Lancia Beta, spesso i giocatori più latin lover me la chiedevano in prestito per fare bella figura con le ragazze.
Hai avuto belle automobili?
Si, ricordo una Innocenti color ghiaccio. Quando ero medico a Belmonte un uomo ferì la moglie a coltellate per gelosia. Io andai a soccorrerla e la misi in macchina per portarla in ospedale ma perse un mare di sangue e morì. I sedili della macchina se ne impregnarono talmente che l’odore del sangue persisteva anche dopo molti lavaggi; alla fine dovetti venderla. Il marito, l’assassino, si diede alla macchia e fu braccato per mesi. Quando lo presero dal carcere mi fece mandare un pollo in regalo e mi ringraziò: “Hai provato a salvare mia moglie, se ci riuscivi salvavi anche me”. Comunque non amavo guidare e se dovevo andare a Roma o fare un lungo viaggio mi facevo accompagnare da qualche ragazzo della Ripa, come il compare Umberto Carosella.
Uno dei tanti compari…
Ho battezzato e cresimato centinaia di bambini. Allora si usava così, il medico era una persona di casa, un amico. C’era un grande rispetto reciproco.
Hai dei rimpianti?
Nessuno, forse solo quello di aver dedicato poco tempo alla famiglia, ma il lavoro era troppo importante per me.
Cosa raccomandi, da vecchio a giovane medico, a tuo nipote Guido?
Non smettere mai di studiare e sii sempre disponibile, giorno e notte come ho fatto io, verso i malati. E se ha dei dubbi o una diagnosi è difficile, chiedi consiglio a chi ne sa di più di te.