Il 2 e il 3 giugno del 1946 l’Italia votò per scegliere tra la Monarchia e la Repubblica. Quale fu l’esito finale è noto.
Ma il Paese, settant’anni fa non entrò in questa nuova fase della sua storia con le piazze in festa o i nuovi tricolori stropicciati dal vento primaverile ed esposti ai balconi. Tutto avvenne con un comunicato del governo che si può definire sobrio a essere benevoli (striminzito è però il termine più realistico) e le città presidiate dalle forze dell’ordine. Per dieci giorni si respirò un clima irreale e tentennante, dove i bizantinismi giuridici fecero buona compagnia alle violenze: per le vie di Napoli si contarono una dozzina di morti. A sbloccare la situazione, evitando ulteriori violenze, fu proprio , il Re di maggio. Insicuro, riservato, signorile sino ad essere anacronistico, il principe divenuto re per un pugno di giorni seppe fare la scelta che salvò il Paese da una impasse politica che poteva trasformarsi in un nuovo scontro civile.
Ma cosa è successo in quelle concitate giornate? Lo racconta bene lo storico Gianni Oliva nel libro Gli ultimi giorni della monarchia. Giugno 1946: quando l’Italia si scoprì repubblicana (Mondadori, pagg. 216, euro 19,50). Come spesso accade in Italia, il punto di partenza fu un’elezione organizzata piuttosto male (con l’unica scusante che il Paese dopo le traversie belliche era ridotto come tutti sappiamo).
Gli italiani erano ansiosi di votare: si misero in coda fuori dai seggi in 25 milioni (per la prima volta anche le donne). Per quanto la macchina elettorale dei partiti repubblicani fosse stata largamente favorita dai media, sino ad allora non c’erano state grosse irregolarità. E non ci furono nemmeno fuori dai seggi, né tafferugli, né minacce, né intimidazioni. Quando si iniziò a votare tutto però diventò terribilmente lungo perché le liste elettorali erano incomplete e pasticciate. Nessun broglio secondo Oliva, solo italica confusione. Come disse lo stesso Luigi Barzini junior, uomo vicinissimo ad Umberto II: «Irregolarità monarchiche dove la maggioranza era monarchica e irregolarità repubblicane dove la maggioranza era repubblicana».
Il conteggio si rivelò poi ancora più deficitario delle liste, fu lentissimo. E dimostrò come l’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del principe Umberto fosse stata una mossa quanto mai azzeccata. Nessuna travolgente vittoria della Repubblica, con scorno della maggior parte dei partiti. Il sud del Paese si rivela ancora a maggioranza monarchica (ha pagato meno cara la guerra), il nord tifa Repubblica. E i voti del sud arrivano prima (c’è stato molto più tempo per ripristinare telefoni e telegrafi). Solo nella notte tra il 4 e il 5 si arriva al responso definitivo: 54% alla Repubblica 46% alla Monarchia. Un calice amarissimo per i monarchici, che visto il ritardo nella comunicazione hanno agio di pensare ad un broglio. A Napoli, dove ha votato per il Re l’80% della popolazione, gli animi si scaldano subito. E mentre partono le contestazioni legali di parte monarchica (un team di giuristi capeggiati da Enzo Selvaggi) per le strade partenopee iniziano le manifestazioni che rapidamente degenerano in scontri con le forze dell’ordine. In un Paese ancora pieno di armi si passa in fretta alle bombe a mano e alle fucilate. Mentre la situazione si surriscalda, il governo decide di «tirare dritto» prima ancora che la Corte di cassazione si pronunci sulla votazione con i dati definitivi (seppure il vantaggio della Repubblica sia ormai chiaro).
Messo davanti al fatto compiuto, Umberto II compie una chiara scelta di responsabilità che gli va riconosciuta: lascia il Paese. E nel lasciarlo invita i suoi sostenitori a non tentare alcuna violenza: «A tutti coloro che ancora conservano la fedeltà nella Monarchia… rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese…». Se non lo avesse fatto la Repubblica italiana avrebbe avuto un inizio molto più sanguinoso.
di Matteo Sacchi su Il Giornale