Paolo Varuzza, biologo della fauna selvatica, taggianese di nascita, vive e lavora in Toscana. E’ consulente in gestione ambientale e pianificazione faunistica per Atc, enti parco e istituti faunistici in diverse regioni d’Italia. Dottore di ricerca in medicina veterinaria sul cinghiale presso l’Università di Pisa, attualmente è titolare di borsa di studio in patologia animale alla Università Federico II di Napoli. In queste settimane è impegnato lungo lo Stivale nella presentazione del suo ultimo prodotto editoriale “Ungulati – Capriolo, cervo, daino, muflone e cinghiale” per i tipi della “Geographica Srl – Studiamo e comunichiamo la natura“. L’autore ha accettato di rispondere a qualche domanda della nostra redazione in merito ai contenuti del libro e alla gestione faunistico-venatoria più in generale.
Dottor Varuzza, ha appena dato alle stampe quello che appare come un manuale scientifico sugli ungulati italiani. A chi è rivolto questo testo?
«Si tratta di un testo divulgativo sul capriolo, cervo, daino, muflone e cinghiale, cinque specie di notevole importanza gestionale. Il libro si rivolge non solo a chi voglia sostenere l’esame di abilitazione alla caccia di selezione, ma a tutti coloro che sono interessati a saperne di più sull’affascinante mondo degli ungulati appenninici. Dopo una parte generale, vengono presentate per ogni specie le caratteristiche morfologiche che le contraddistinguono, la loro organizzazione sociale, il comportamento riproduttivo e spaziale. Arricchiscono i testi numerose illustrazioni e tabelle che guidano il lettore nel riconoscimento del sesso ed età in natura, così come i segni di presenza e tavole dentarie».
Il filo conduttore del suo lavoro ci è parso essere: la fauna selvatica non può non essere gestita. Ci spieghi meglio questa “necessità”.
«La fauna selvatica può costituire una risorsa ecologica, culturale, economica, e nel caso degli ungulati anche alimentare, a patto che non si creino situazioni di non equilibrio. Una buona gestione nasce da un ottimo quadro di conoscenze, ma anche dal rapporto di collaborazione tra mondo scientifico, agricolo, venatorio, ambientalista e politico. Una non gestione o peggio ancora una cattiva gestione generano notevoli problematiche non solo alle attività agricole, ma anche di tipo ecologico per la conservazione di habitat o determinate specie. I cinghiali nelle città sono frutto spesso di una pianificazione territoriale non adeguata, ma anche di una gestione venatoria in alcuni casi errata».
Qualcuno descrive il cacciatore come un “tecnico dell’ambiente”. E’ una rivalutazione della figura classica del cacciatore italiano, visto spesso come chi va nel bosco a uccidere animali indifesi?
«Nel libro non si parla di cacciatori come “tecnici dell’ambiente”, ma certo bisogna distinguere la figura del cacciatore da quella del bracconiere. Un vero cacciatore mette al primo posto il rispetto dell’ambiente e della fauna, un bracconiere non rispetta le regole della natura e della caccia. Bisogna investire sull’educazione e formazione dei cacciatori e dell’opinione pubblica. Gli Ambiti Territoriali di Caccia, ma anche le Aree Protette hanno bisogno di cacciatori che collaborino alla gestione della fauna: dai censimenti, ai miglioramenti ambientali fino ad arrivare ad un prelievo consapevole e scientificamente programmato».
Wildlife management: potrebbe servire anche a creare reddito e lavoro in zone interne notoriamente depresse?
«Direi di sì, basti pensare allo sviluppo della filiera delle carni, visto che parliamo di carne davvero a km zero e di altissima qualità. Ma anche alla crescita di un turismo ambientale basato sull’uso consapevole delle risorse ambientali, ad esempio sul modello dei parchi americani o alla creazione di marchi di qualità».
Soffermiamoci sui cinghiali, che rappresentano una emergenza nazionale ormai. E’ utile, a suo avviso, aumentare il periodo di caccia in braccata? O ci sono altre soluzioni? Quali a suo avviso le più efficaci?
«Sul cinghiale nessuno ha la bacchetta magica e non esiste una ricetta unica per ambiti molto diversi tra loro come in Italia. Non credo sia una questione di periodi di caccia, ma di organizzazione differenziata del prelievo per luoghi, modi e tempi. In alcuni contesti agricoli la presenza del cinghiale non può essere tollerata, mentre in altre situazioni una buona prevenzione può limitare il danno, ma a rimetterci non deve essere il singolo agricoltore. Allo stesso tempo non va tralasciato il controllo anche nelle aree protette a patto che sia selettivo e, anche a costo di essere ripetitivo, ben pianificato».
Francesco Bottone
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