Sono ormai dominio delle televisioni e del web le immagini apocalittiche del crollo della Basilica minore di san Benedetto a Norcia, capolavoro dell’arte tardo romanica del XIV secolo.
Pochi istanti per veder venire giù quelle pietre squadrate e lavorate da mani espertissime d’altri tempi, poste lì in un disegno architettonico mozzafiato, in piedi solo fino a qualche ora fà.
Viene da piangere e da pensare che roba così non ci sarà più e non avremo più altre bellezze d’arte, spietatamente compromesse e perdute per sempre, né in Norcia, né purtroppo nell’area del cratere sismico che non accenna a delimitarsi, che anzi avanza come segno inesorabile di ecatombe.
Davanti agli occhi tutto questo, insieme ad alcune persone, che trovano il coraggio e la voglia di gettarsi in ginocchio e pregare nella stessa Norcia, cadente e sovrastata da una coltre di polvere, che fa pensare al tempo sospeso su quelle botteghe artigiane ormai ferme e interrotte dal loro antico lavoro.
Mi fermo e subito mi balena un pensiero: cos’è questo? Un terremoto? No mi dico, non solo, vedo di più, oltre. Pur pensando e pregando innanzitutto per tutte quelle persone, anziani, bambini, malati e altri che hanno perso la loro casa, i loro spazi vitali, speriamo non la vita o la salute, vedo anche un segno forte in questo terremoto, epicentro a Norcia, patria di san Benedetto, patrono d’Europa.
La Basilica ormai diruta sorgeva secondo la tradizione sulla casa natale di san Benedetto e sua sorella Santa Scolastica, quindi l’alveo da cui è uscito il padre del Monachesimo occidentale e colui che ha operato nella Chiesa per la riforma più importante del I e II millennio cristiano.
San Benedetto è il fondatore di un ordine che guarda con armonia e giusto equilibrio al connubio tra preghiera e lavoro, che qualifica Opus Dei tutta la giornata del monaco, chiamato a consacrare a Dio sia il tempo della Lode corale sia quello personale del lavoro manuale.
Questa è la meravigliosa esperienza che rinnovò e diede luce e splendore all’Italia e poi a tutta l’Europa, lasciando solchi profondi e significativi in ogni popolo del Vecchio continente.
L’abbazia di Westminster (Inghilterra), Mont-Saint-Michel (Francia), l’Abbazia di Cluny (Francia), l’Abbazia di Citeaux (Francia), l’Abbazia di San Gallo (Svizzera), i Monasteri di Reichenau e Lorsch (Germania), l’Abbazia di Notre Dame d’Orval (Olanda), l’Abbazia di Melk (Austria), Montecassino , Subiaco, Cava dei tirreni, Farfa, Camaldoli, Serra san Bruno (Italia) sono solo pochissimi esempi di un solco profondissimo lasciato con imponenti fabbriche e pregnanze culturali smisurate nella nostra Europa, incontestabilmente unita e radicata nel Cristianesimo dall’opera benedettina.
Il primo aprile 2005, l’allora cardinale Rsatzinger, pochi giorni prima della sua elezione a Papa, in cui volle assumere proprio il nome di Benedetto, tenne una conferenza a Subiaco, edita successivamente per i tipi di Cantagalli, con il titolo de «l’Europa di Bendetto nella crisi delle culture», Roma 2005.
In un passaggio fondamentale, si cita il razionalismo come male infettivo, eredità dell’illuminismo peggiore e radice di quel gran filone che potremmo definire secolarizzazione, che mira alla spoliazione della società da ogni riferimento religioso e spirituale.
In altre parole, il cardinale Ratzinger vedeva nelle varie culture Europee un minimo comune denominatore che è la concreta possibilità di pensare e vivere la vita etsi Deus non daretur (come se Dio non ci fosse).
L’Europa è stata resa grande nelle arti (scultura, pittura, musica, letteratura), agricoltura, medicina, botanica, economia, politica, ecc… soprattutto grazie al concorso del monachesimo benedettino, cioè dall’incarnazione storica e vissuta del Vangelo cristiano.
Poi cosa è successo?
L’uomo ha iniziato a pensare di potersi fare da sé, ha staccato la presa da Dio. Ed ora possiamo vedere da soli cosa e come si vive oggi nel nostro continente antico. Non esiste più un’ identità forte e comune, né cristiana, né laica. Abbiamo una moneta unica, ma non un pensiero e un credo comune. Se guardassimo alla storia biblica, troveremmo che il popolo Ebreo prima di costituirsi in stato e Monarchia, fu prima popolo di fede, unito dallo stesso credo.
«Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto come Abramo, diventò padre di molti popoli. Le raccomandazioni ai suoi monaci poste alla fine della sua regola, sono indicazioni che mostrano anche a noi la via che conduce in alto, fuori dalle crisi e dalle macerie: come c’è uno zelo amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. È a questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali… Si vogliano bene l’un l’altro con affetto fraterno… Temano Dio nell’amore… Nulla assolutamente antepongano a Cristo il quale ci potrà condurre alla vita eterna (san Bendetto, la Regola, capitolo 72 )» in op. cit. pag. 64-65.
Che questo ultimo terremoto sia anche un segno per l’Europa? Che la caduta di quella chiesa non è solo il crollo di un manufatto artistico, ma il segno di ben altra caduta?
Voglio scorgere in quelle poche persone, in ginocchio, a mani giunte e determinate nella loro fede, l’aurora di un nuovo Kairòs, secondo il motto degli stessi Benedettini: succisa virescit (recisa alla base, torna a rinverdire).
di don Paolo Del Papa