• Editoriale
  • Il Bronx a Roma

    Si dice – per lo meno mi è sembrato così di interpretare le conversazioni tra Mario Platero e Guido Barendson, noti corrispondenti di importanti giornali italiani da New York – che la grande metropoli abbia registrato una sensibile diminuzione dei delitti e della criminalità organizzata (quella, ad es., di Don Vito Cascioferro e di Don Vito Corleone) e la ferocia con cui costoro confezionavano e smaltivano le loro vittime.

    In una città bella, la città eterna, quale è Roma, invece, è vertiginosamente e paurosamente cresciuto il crimine. Nella città millenaria, la città in cui ha sede il Papato e nel cui sottosuolo esiste una città antichissima, fatta di mura, di affreschi, di mosaici, ancora tutti da scoprire.

    Naturalmente, senza potere non riesumare le vestigia criminali dell’antichità, a partire da quelli che riguardarono le tremende sentenze della inquisizione, il rogo di Giordano Bruno a Campo dei Fiori, le Fosse Ardeatine, gli omicidi politici e non, sui lungotevere romani, e fermandoci soltanto nella seconda metà del secolo scorso, ci viene subito in mente la banda dei marsigliesi, che operò tra la fine degli anni 60 e i principi degli anni 70, e, poi, quella, più feroce, della Magliana, nei cui grembi crebbero alcuni personaggi, diventati, poi, tristemente noti nell’attualità contemporanea della malavita organizzata, quindi, della mafia e delle sue inaudite penetrazioni nei gangli più segreti e remoti della politica, del Comune e delle municipalizzate, delle cooperative dei vari servizi, soprattutto quelli della circolazione urbana, sotterranea e di superficie, dove la corruzione, gli sprechi, la disorganizzazione, i disservizi, gli scioperi improvvisi e selvaggi, mettono in crisi il già precario uso di un servizio quotidiano e con un numero di addetti – effetto naturalmente del clientelismo dell’hard power romano – superiore ad ogni altra città italiana.

    Cento kilometri di sotterranea romana, sono la metà di quella milanese, ma con un numero di addetti doppio.

    Gli anni 60, in particolare il 1966, furono anni terribilmente burrascosi non solo per la società italiana e per quella romana in particolare, ma per la società di tutto il mondo.

    I venti di tramontana, non sempre beneficamente produttivi, arrivavano da tutte le parti del pianeta, da Berkley a Parigi, da Bonn a Monaco, da Milano a Roma, ed erano fortemente influenzati da un pensatore molto affascinante e controverso (Herbert Marcuse) e non potevano non coinvolgere anche la società romana, in particolare quella studentesca, quella sempre fortemente in movimento nel circuito della Sapienza, dominata dai bianchi edifici dello strutturalismo fascista, sulle cui gradinate si riunivano e discutevano, più o meno animosamente, prendendo le decisioni, spesso le più azzardate, gruppi di studenti, e che furono teatro, oscuro ed impenetrabile, di quell’orribile omicidio di Giorgiana Masi, dieci anni dopo circa.
    In questo contesto – in quella città già caotica non vi era ancora la metropolitana, che avrebbe congiunto, più tardi, i grandi quartieri romani, con straordinaria velocità e nei cui vagoni si sarebbe agitata nei decenni successivi la più variegata, policroma e polietnica società, e dai cui sotterranei, entrava ed usciva disperatamente la mattina, quasi oniricamente, il pomeriggio stanchi e sfibrati dalle lunghe traversate, spesso interrotte da scioperi selvaggi degli agenti dell’ATAC – si svolgevano, già allora, delle straordinarie guerre notturne, talvolta anche diurne, tra bande.

    Si opponevano gruppi delle più svariate borgate, da quelle dei Parioli, che confluivano sulla storica Piazza Euclide (il centro nevralgico della civiltà c.d. pariolina), alle borgate di Tor Vergata, di Centocelle, della Magliana, e gli scontri erano talvolta paurosi spesso anche con feriti.

    La più pericolosa delle bande fu, come detto, quella dei marsigliesi, seguita, poi, da quella più feroce e crudele della Magliana: quasi un vivaio, particolarmente fertile di tutta la malavita romana e da cui avrebbero tratto origine quei famosi personaggi (Massimo Carminati e Salvatore Buzzi) che avrebbero trovato, poi, facile terreno nei gangli amministrativi della città e che sarebbero giunti ad intercettare i poteri forti dell’urbe.

    Non si sarebbero salvati né Alemanno; stenta, oggi, a salvarsi Marino; e gli stessi Rutelli e Veltroni, sono stati toccati dalle ombre oscure, se non della corruttività attiva, per lo meno della permissività tollerante e fertile.

    In quel clima, che sarebbe stato, poi, raccontato in modo avvincente da Pier Paolo Pasolini, negli anni 70 era andata crescendo quella società dei “ragazzi di vita” pronti a tutte le malefatte e le nequizie che in una città come Roma e nei meandri oscuri delle vie del suo centro – sui Lungo Tevere, dove spesso si vedevano circolare topi grandi come conigli, che la fanno da padrone nella città sacra e che fanno ricordare la città di Algeri, drammaticamente raccontata da Albert Camus, in cui il grande scrittore descrive l’assalto dei topi venuti in superficie, attaccando tutto e tutti – si potevano commettere.

    E, così, il 29 settembre 1974, tre figli della borghesia pariolina, Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, quest’ultimo, figlio di un campione olimpionico di pallanuoto, poi, sfuggito alla cattura; si è detto che era stato visto a Madrid, in Brasile e in Sud-Africa), e gli altri due figli di palazzinari romani, si incontrarono, quelli che oserei chiamare i giubbottari, i motociclettari, che, a bordo di lussuosi bolidi circolavano per le vie romane, incontrandosi finalmente in Piazza Euclide.

    Questi tre delinquenti, tra l’altro, robusti atleti (palestra, bicipiti possenti, ecc.) decisero di fare una bravata eccezionale.

    Incontrarono due brave figlie Donatella Colasanti di 17 anni e Rosaria Lopez di 19 anni, intrise di sogni di grandezza che la gioventù in genere coltiva, lasciandosi convincere dai tre ad andare ad una festa bellissima sul Circeo, presso Villa Moresca del costruttore Guidi (a Lavinio, frazione di Anzio) e, quivi giunte, dove di festa non ce n’era nessuna, cominciarono ad essere torturate, spogliate, violentate.

    Una di esse, Rosaria Lopez, uccisa nella vasca da bagno (si immagini con quale ferocia) ed l’altra trascinata per tutta la casa con una cinghia al collo perchè si era finta mobile.

    Vengono, poi, caricate su una Fiat 127, di proprietà di Guidi e lasciate in una via romana, dove un metronotte, avvertiti i lamenti della sopravvissuta, chiamava la polizia.

    Nel codice cifrato della polizia…..”vi è una gattina all’interno di una macchina di una via romana” ed ecco, pronto un paparazzo romano, si precipita sul posto e scattava un serie impressionante di foto con teleobiettivo e si scopre che una ragazza giaceva priva di vita e l’altra, orribilmente sfigurata nel volto, ma ancora vivente.

    Quell’orribile episodio, sconvolse Roma, la quale percepì per la prima volta in modo evidente, come la città potesse creare dei mostri aggressivi, feroci, confusi, in quella quasi onirica civiltà “under-ground”, che si muoveva in masse sempre più cospicue nelle sotterranee delle metropolitane (e ovviamente anche di superficie) molto spesso bloccate da fermi del personale, magari da incidenti, come quello avvenuto di recente, di un bambino che cade in un ascensore e muore; buttando letteralmente sulle strade ardenti di Roma, gente costretta a percorrere kilometri di strada, arrabbiata, arrossata, in cerca del posto di arrivo.

    Quell’episodio così brutale avrebbe avuto, poi, un seguito nella pacifica Campobasso, dove quell’Angelo Izzo, messo improvvidamente in libertà non si sa bene se dal Tribunale di Sorveglianza di Campobasso o da quello di Palermo per difetto di comunicazione o di altro, incontrò moglie e figlia di un pregiudicato della Sacra Corona Unita, Giovanni Maiorano e con loro, dopo una burrascosa, mai chiarita relazione, le sotterrò quasi vive coprendole di calce viva, nel giardino di una villa di Ferrazzano (CB).

    Il mostro continuava ad essere collocato nell’ambito di quella civiltà in cui era nato ovvero quella romana.

    Per carità, abbiano ovviamente milioni di gente che vive pacificamente nella grande città dell’urbe, che però non riesce a salvarsi, a parte le punte criminose di cui si è detto, da quel serpeggiare delle intuizioni o delle percezioni, che a Roma “se magna”, a danno di tutta la collettività italiana e che avrebbe fatto dire, a non pochi esponenti dei gruppi nordisti più arrabbiati (Bossi), che Roma poteva definirsi come “Roma ladrona”.

    In effetti le complicazioni burocratiche, ministeriali, quasi tutte concentrate nella città capitale, cui 40 anni di regionalismo proclamato non è riuscito a sottrarre granchè dai centri decisionali, è diventata preda di tutta quella attitudine alla corruttela, che costituisce, oggi, il più grave problema della nazione italiana.

    E, così, è accaduto, nella scarsità dei poteri di indagine, di prevenzione e di repressione della criminalità organizzata, che un artista geniale, un gioielliere, sia stato assaltato, tramortito ed ucciso nella sua bottega celliniana in cui forgiava gioielli pregiati anche per Buccellato.

    E in questa disorganizzazione generale, che, per la verità nella storia repubblicana post-bellica, non si era mai verificata in forme così’ gravi, per cui il precedente Sindaco Alemanno è sotto indagine giudiziaria per sospetti di compromissione con la mala organizzata, in particolare quella delle Coop., continua il dissesto della Capitale, quello che Enrico Montesano, abitante tra il quartiere Salario-Parioli, descrive con drammatica repulsione: strade piene di buche, alberi non potati né defogliati, cassonetti rovesciati, tra i cui resti si aggirano ratti come quelli descritti da Camus, cose che ovviamente mettono in crisi anche l’attuale amministrazione Marino che per poco si è salvata dallo scioglimento del Consiglio Comunale, almeno per il momento, rimpastando il governo con nuove figure all’urbanistica, all’arredo urbano, alla nettezza e alle municipalizzate.

    Non si salva nemmeno la gestione del cimitero, il Verano, posto ai piedi del Policlinico Umberto I, che è a due passi dall’obitorio, emblema inquietante del rapporto tra vita e morte.

    Possiamo farcela per vincere questa situazione?

    Dobbiamo, abbiamo il dovere di farcela e di ricorrere a tutte le nostre personali risorse, umane e materiali, per evitare che lo sfacelo continui.

    Franco Cianci

     

     

     

     

    Sostieni la stampa libera, anche con 1 euro.