Perché l’arrosticino attuale non può essere considerato un cibo slow? Lo spiega in dettaglio l’associazione Slow Food Abruzzo: «Serve una visione sul tema che sostenga gli allevatori locali, valorizzi le filiere corte e il benessere animale, e tuteli l’ambiente, le risorse e le comunità del territorio».

A seguito del dibattito emerso sui social network, sollecitato anche dalla stampa locale dopo il successo dell’evento “Arrostiland” del 21 aprile scorso a Torre de’ Passeri, Slow Food è stata direttamente chiamata in causa. Come associazione regionale, spiegano, «riteniamo quindi opportuno offrire un chiarimento, soprattutto rispetto alla possibilità che l’arrosticino diventi un Presidio Slow Food».
Come a molti noto, Slow Food valuta le produzioni alimentari sulla base di tre criteri fondamentali: buono, pulito e giusto, diventati gli assi portanti dell’intera filosofia connessa alla chiocciola rossa. «L’arrosticino attualmente in commercio, così come prodotto, distribuito e consumato oggi, non risponde a nessuno di questi tre principi» affermano dall’associazione, spiegando poi in dettaglio quanto segue.

Perché l’arrosticino industriale non è uno “Slow Food”
Non è buono: l’attuale sistema produttivo legato all’arrosticino non è equo né sostenibile. La narrazione lo presenta come simbolo dell’identità abruzzese, ma la realtà è ben diversa: la carne utilizzata proviene spesso da filiere lunghe e globalizzate, slegate dal territorio, e non soddisfa criteri qualitativi che vadano oltre l’aspetto gustativo. Questi arrosticini hanno costi esterni elevatissimi: in termini ambientali (trasporto da grandi distanze), etici (benessere animale compromesso da allevamenti intensivi) ed economici (pressione al ribasso sui piccoli produttori). Non è, quindi, un prodotto buono nel senso profondo e integrato che promuoviamo.

Non è pulito: la produzione attuale ha un impatto ambientale significativo. Le carni sono trasportate attraverso filiere lunghe e complesse, con elevata emissione di gas serra. Provengono da allevamenti intensivi che nulla hanno a che fare con i sistemi estensivi e rigenerativi, come invece intendono essere gli allevamenti slow promossi dalla nostra associazione. Originariamente, l’arrosticino nasceva per valorizzare carni ovine “a fine carriera”, in una logica di economia circolare e recupero: una distanza abissale dal modello industriale odierno.

Non è giusto: il sistema attuale penalizza i produttori locali, che rappresentano l’anello più debole dell’intera catena. Il prezzo riconosciuto agli allevatori non è equo e non valorizza il lavoro agricolo-pastorale. Questo meccanismo disincentiva le giovani generazioni a intraprendere attività zootecniche sostenibili, aggravando l’abbandono di economie tradizionali su base locale e delocalizzabili. In queste condizioni, la pastorizia abruzzese perde valore e attrattività, soprattutto per le giovani generazioni, sostituita da una filiera ingiusta e squilibrata, dove il lavoro agricolo continua a rimanere l’ultima ruota.
L’arrosticino come Presidio Slow Food?
Alla luce di quanto descritto, è evidente che l’arrosticino confezionato a livello industriale non potrebbe mai essere considerato un Presidio Slow Food. Come suggerito dallo stesso termine utilizzato per classificarli, i Presìdi nascono per tutelare produzioni in via di estinzione, legate a territori e per far rimanere attive tradizioni e pratiche che rischiano di scomparire. L’arrosticino, invece, sembra “godere di ottima salute commerciale”: milioni di pezzi prodotti e consumati ogni anno, ampia diffusione commerciale, presenza costante nei menu di ristoranti e sagre. Non solo: si tratta di un prodotto relativamente recente, che non affonda le sue radici in una tradizione antica e consolidata. Non è un sapere da salvaguardare né un alimento a rischio scomparsa. Al contrario, si inserisce pienamente nelle dinamiche del fast food territoriale: veloce da preparare, da consumare, da replicare ovunque, con poche attenzioni alla qualità complessiva della filiera.

Che tipo di turismo vogliamo?
Un evento che concentra 25.000 persone in un solo giorno in un piccolo centro solleva più di un interrogativo, soprattutto se si confronta con il recente allarme per l’arrivo di 10.000 persone a Roccaraso da Napoli, subito bollato come “overtourism”. Cosa cambia? Il numero o la narrazione? Se 10.000 persone a Roccaraso destano preoccupazione, perché 25.000 a Torre de’ Passeri dovrebbero diventare un successo da celebrare? Forse ci sfugge qualcosa, ma il ragionamento sembra perdere coerenza. Come Slow Food, preferiamo eventi diffusi, che ridistribuiscano valore e presenze lungo l’arco dell’anno, anziché puntare tutto su un picco di consumo concentrato. Preferiamo forme di turismo rispettose dei territori, dell’ambiente, delle comunità locali, che valorizzino davvero le terre alte creando forme di equilibrio tra l’attività dell’uomo e la natura.

Le nostre proposte
Esistono due approcci alla valorizzazione del cibo tipico: uno lo collega a un sistema di produzione locale, fondato su economia, cultura, paesaggio e relazioni sociali e costituito da contratti corti di filiera, l’altro lo eleva a strumento di marketing. Slow Food ha da sempre scelto e sostenuto il primo: il cibo come diritto, come patrimonio collettivo, come leva di giustizia ambientale e sociale, come asse di rigenerazione territoriale. La “torre” sta in piedi se stanno bene tutti i suoi “torresi”, 365 giorni l’anno: a nostro avviso il benessere della comunità non si può misurare in base ai numeri di un evento, ma rispetto alla qualità della vita, del lavoro e della sostenibilità sociale che riesce a garantire nel tempo.
Per questo occorrono politiche integrate e visioni focalizzate sul tema, tese a garantire i diritti di accesso e di vivibilità di un territorio, la salvaguardia della biodiversità, il sostegno al lavoro dei produttori nei territori, specialmente quelli montani dove l’economia locale è più fragile. Allora ribadiamo con forza che l’unico Presidio che ci consentirebbe di sposare una politica buona per la trasformazione dell’arrosticino in uno “slow food” è quello dei prati stabili e pascoli, luoghi sani, in cui le pecore possono trascorrere la loro vita evitando che il bosco continui ad avanzare, brucando e nel contempo consentendo alla ricchissima biodiversità del pascolo di riprodursi, mitigando così l’impatto climatico. Valorizzando una filiera corta, che favorisca la stabilità ambientale e il benessere degli animali.
Per questo, come Slow Food Abruzzo riaffermiamo il nostro impegno per un cibo buono, pulito e giusto per tutte e tutti, riconoscendo che ciascuno è libero di agire secondo i propri valori, ma ribadendo con fermezza quali sono i nostri.