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  • Passeggiando in Alto Molise: i “cumbiette” di Agnone, la “pezzata” di Capracotta

    Sono i più famosi del Molise, ma non ignoro quelli ugualmente buoni e famosi di Sulmona e d’Abruzzo, insieme, i responsabili del passaggio linguistico e culturale dei confetti nel volgare italiano. Con la perdita, però del significato originale del termine che aveva presso di noi: Kwm/con + Byt/beyt-casa, per le nozze, per il matrimonio, in occasione della festa “per mettere su casa”. Il sogno di tutti gli sposi del mondo, anche dei “ziti” molisani e abruzzesi, quelli uniti in matrimonio con un rito antico, sacro e benedetto, un matrimonio davanti alla gente, coram populo, con tanto di olio santo (Zyt/olio), benedizioni e voti dei genitori, dei parenti e di tutta la Comunità…

    Insomma, non la fuitella o fuitina, l’unione di fatto, il concubinaggio, la schiavitù, il servaggio, la sottomissione-subordinazione, da mantenuto-mantenuta…I confetti sono il simbolo della libertà e della dignità della donna, del rispetto che aveva per lei l’uomo, del matrimonio ufficiale, conforme alle regole e alla tradizione, quello che ha l’approvazione di tutti, fatto dagli sposi innanzi tutto, ma condiviso anche dalle famiglie, dai parenti, dalla Comunità…quello che rende legittima la prole, con tutti i diritti e i doveri che ne conseguivano, quello che meritava la benedizione dei genitori e la stima, il rispetto di tutti.

    Ecco il perché dei confetti, che il latino fa derivare banalmente da conficere- confectum, perdendo il senso e l’identità del matrimonio, della festa, della nuova vita, quella che si inizia nella nuova casa…il sogno di tutti gli ziti-sposi del Molise, dell’Abruzzo e dell’Italia, del mondo intero. Un sogno che è rimasto nei cum-biètte di Agnone: era compito di ognuno di noi trasformarlo in realtà.

     “Non ci hanno capito un cazzo

    Agnone è il borgo dei ramai, “gli esperti delle fusioni” (Rvmayreh), del rame e dello stagno (bronzo), del rame e dello zinco (ottone), del rame e del ferro…quelli che hanno mandato in soffitta il latino cuprum, prodotto le cambane (Kanbny/dai fianchi suonanti) e quei recipienti di rame che hanno permesso la lavorazione del latte e, di conseguenza, la pastorizia nel Molise e nell’Area dei tratturi e delle transumanze. Senza i loro “ciammiélle”, i pajoli, caudari, cutturi e cuttrielle non avremmo avuto la cultura, la civiltà e il benessere che ha distinto per secoli le comunità dei nostri borghi, ma Agnone non è solo questo, è molto di più, tanto da meritare il titolo di “Atene del Sannio”…

    Alla base della sua fama c’è il lavoro, la fatica, la puteca, la fucina e intorno ad essa tutta una Comunità di artigiani che hanno saputo trasformare le tecniche militari in attività (giòbbe, da Ywb) utili alla gente del posto e del vicinato: tutto questo ce lo rivela la lingua, la parlata sdreus‘-semitica tra le più ricche di tutto il Molise,[1] la testimonianza del passaggio dall’osco-sannita alla nuova parlata delle generazioni del dopo Canne, quelle che non parlano più il “giargianése” (v.), ma la lingua dei vincitori di Canne, un indicatore prezioso dello stesso Samnium che sta diventando Molise. Agnone è testimonianza viva, esemplare, paradigmatica per tutto il Molise, solo così la sua id-entità si capisce fino in fondo, solo così fa capire fino in fondo tutto il Molise. Qualche indicatore?

    – Cominciamo dalle donne: hanno “lu maise”, dal tempo dei tempi, i locali traducono “mese”, un termine che fa capire ma non rende appieno il senso dello originale, da Mhy/life, corn, vita e cereali + Se/like, love, modo: il ciclo della vita. Quello che ritroviamo nel cuòtre-majje di Agnone, nei Mulini Majo di Mirabello, nei maicantò di Santa Croce, nella pagliara maje maje del Biferno, nei mai e nei calendimaggi della Toscana e di tutta Europa (v.). “Canti per il miglior raccolto di grano” e “Canti per il ritorno della vita”, anche il radicale della maje-sa, del mitico Gatto Mai-mone, della majeutica greca, delle Maiestà di Simone Martini e di Duccio di Buoninsegna…

    – i ramai di Agnone hanno portato a Corfinio, per i confederati del Sannio e di tutta l’Area dei tratturi, le monete con legenda “ITALIA”, il grido di rivolta di tutti i richiedenti la cittadinanza romana; pochi o nessuno che abbia letto “Y-tal-ya”/”il bel paese dove il dolce sì suona”, l’Italia di Dante e del molisani del I sec. a. C., troppo avanti a tutti gli italici desiderosi di diritti politici e civili…

    – i “cumbiètte” d’Agnone, i simboli del matrimonio davanti alla gente, dell’unione sacra e indissolubili degli sposi, i ziti (Zyt/olio), quelli che si preparavano ad avere la loro prima casa, quelli che offrivano i cumbiètte, da Kwm/con, per + Beyt/casa, quelli che i linguisti fanno banalmente derivare da conficio-fare e fanno perdere non solo la poesia, ma la stessa realtà sognata dai nuovi sposi, andare in una loro propria casa, iniziare una nuova vita, continuare la vita…

    – le verlencòcche, le albicocche di Agnone, come le merlencocche di Casacalenda, quelle che hanno detto ai contadini del Molise, dell’Italia e dell’Europa, come cogliere un frutto: da cogliere (Koc) quando sono prossimi (Mhr) alla maturazione (VerLyn); prima sono acerbe e non sono buone, dopo sono di difficile trasporto o le trovi già cadute dall’albero…una saggezza antica, che ritrovi nei proverbi…

    – “Decètte lu cuorve alla picazza, se ne fatoja te magne cazze”…sì, il termine più diffuso della lingua volgare italiana è di origine molisana, in tutti e tre i suoi significati: 1) Katz/kaz-to cut, tagliare, incidere, circoncidere (di cultura ebraica); Katz/kat-go up, che si alza, che si porta in alto (di cultura fenicia, cazzare le vele); Katz/kaz-to join, per unire, congiungere (di cultura aramaica): non c’è termine che sfugga ad uno di questi significati semitici; lo abbiamo dato al volgare italiano, lo abbiamo dato al chez francese, perfino al “Für die Katz” tedesco…

    – le “’ndòcce”, la ‘ndocciata: non c’è nessuno che l’abbia capita nel suo significato pieno, antico e sacro: da Dvk/to bury, per la sepoltura del sole, festa del fuoco per la sepoltura del vecchio anno (equinozio d’inverno) e preghiere-augurio di rinascita a nuova vita, nell’anno nuovo. La cultura, la civiltà del fuoco, quella che in tutto il Molise si manifesta con le faglie, le farchie, i falò, le focàre, gli stucce…

    – Agnone è d’esempio perché è la memoria più viva e più autentica del passato, quella che ha conservato l’inno di guerra, il peana dei legionari libici di Canne e trasformato nel canto dei mietitori di grano: “Thomma bbèlla thamma“ (Tum/tom-break, beat, cut, pound, destroy + Bel/weapon, knife, axe, anche falce + Tvm/tam-strike, knock, press: “taglia arma attacca”)…la dimostrazione della eredità fenicia, di Tiro, di Sidone e di Cartagine…

    – Agnone ha conservato sia i segni simboli della divinità (i tori) sia i segni-simboli della comunità (i leoni): pochi sanno dai tanti leoniche il borgo (Borug/recintato con mura) conserva gelosamente nelle sue chiese, pochi sanno del significato della sua triangolazione religiosa tra le Chiese di San Marco, San Nicola e San Pietro: come dire, un borgo sotto protezione divina, un segno del destino…

    – Agnone è una delle 99 Comunità del Re Bove, una Comunità con una propria chiesa, una propria religione, una propria storia, una propria cultura, una propria economia, una propria lingua…antica, originale, profonda. Una miniera di fossili linguistici, una corona di purissime perle, un’orchestra di stradivari che suonano non appena una mano esperta ne sa trarre la musica congelata da millenni. Nella monografia su Agnone ne ho indicato 99, simbolicamente…

    – In breve, fuori dai simboli e dalla retorica, ma nella realtà viva del quotidiano: da sempre, Agnone è una “Comunità fondata sul lavoro”, la Costituzione dell’Italia repubblicana ne ha solo copiato, ratificato e nazionalizzato il principio.

     La pezzata di Capracotta

    La “Tavola osco-sannita” di Agnone-Capracotta è considerato il documento più importante sulla vita religiosa dei sanniti e l’organizzazione politico-amministrativa di touta e oppida. L’esame testuale porta ad una data di realizzazione molto distante dal periodo più florido della vita dei sanniti (V-IV), tra il III-II sec. a. C., decisamente un periodo di decadenza-declino, quello successivo alla conquista e alla sottomissione a Roma (293 a. C.), più espressione di schiavitù che di libertà del Sannio. La Tavola evidenzia la stessa in-congruenza del toro-bue e dei templi così detti italici, in verità punico-molisani, del II sec. a. C.: si costruiscono dopo che il Sannio è stato distrutto e soggiogato, non quando era libero e potente, capace di esprimere autonomamente la propria religiosità, la propria cultura e la propria civiltà. Nel Molise punico I ho letto il testo come se fosse stato scritto in lingua punica, ma con i caratteri dell’alfabeto osco-sannita, e la lettura, salvo qualche lieve assestamento-miglioramento, ancora adesso esprime un senso migliore di quelli finora ritrovati da altri studiosi. Il che fa pensare che a redigere le Tavole (Tblh) siano stati gli uomini di Annibale, quelli rimasti nel Sannio dopo la battaglia di Canne (216 a. C.), quelli che non hanno voluto o potuto seguire il Comandante nell’avventura di Capua; gli stessi che avevano dato una mano nella stesura delle Tavole Eugubine, anch’esse successive al periodo della battaglia del Trasimeno (217 a. C.), come la critica più avveduta sembra orientata ad ammettere, soprattutto grazie all’esegesi linguistica.

    Oltre la Tavola, c’è un’altra grande testimonianza della religiosità semitica del Sannio-Molise, la pezzata. La “Sagra della pezzata” si svolge ogni anno d’agosto, in Prato Gentile, a Capracotta: è la rappresentazione gioiosa di un antico rito religioso, di vittime passate per il fuoco. La partecipazione-condivisione non è solo un sentito obbligo dei fedeli, ma la necessità di un sacrificio alla Divinità: “ogni offerta di carne era un sacrificio, ogni sacrificio era un’offerta di carne”, ogni olocausto doveva essere un’offerta di carne passata per il fuoco. Cotta nei cutturi-caudari-cuttrieglie o su graticole-fornelli, è indifferente, importante è solo non offrire e non mangiare carne cruda, impura, indegna e sacrilega per la Divinità; il fuoco è elemento purificatore, il fuoco che ritorna, in modo diverso, nei falò, sempre come preghiera, ringraziamento e voto-scongiuro. Per questo nel Molise, dappertutto, c’è la cultura del fuoco, durante tutto l’anno, anche se i nomi e i modi, le festività e i tempi, non le intenzionalità, sono diversi, da zona a zona, da comunità a comunità. La pezzata (Pez-ta/porzione di cibo) di Capra-cotta (Kprktt/villaggio distrutto e incendiato) è il “sostitutivo di un sacrificio”: da qui la necessità dell’assaggio (Sag/piatto), la prova della condivisione-partecipazione al rito, l’hostia, l’equivalente della comunione, l’eu-carestia per i cristiani. Forse, anche la continuità con il passato, se Capracotta è l’antica Cominium sannita, Carovilli l’antica, introvabile Aquilonia e Pietrabbondate, la Bovianum vetus.[2]

    di Antonio Fratangelo 

     

     

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