• Editoriale
  • Quella marcia di 50 anni fa

    Quella fiumana di gente che attraversava l’America, il 7 marzo 1965 (JFK era morto da poco più di due anni e l’ultimo suo successore aveva solo 4 anni), carica di dolori, cosparsa di cicatrici nelle sue membra, formata da afro americani, da messicani, da indios di vario genere che speravano, sognavano un’America più liberale, più solidale e che seguivano, rapiti, Martin Luther King – che dopo due anni appena sarebbe stato ucciso da una fucilata a Memphis, nel Tennessee – non prevedeva che, superato il ponte di Selma, in Alabama, sarebbe stata in parte decimata da poliziotti accecati dal pregiudizio più cupo contro la razza considerata inferiore.

    Era per loro una eroina Rosa Louise Parks, la sarta che seduta su una sedile di un autobus, riservato ai bianchi, in modo, pacato, gentile, dignitoso si rifiutò di alzarsi per dare posto ad una donna bianca.

    Era il momento del più cupo razzismo, un razzismo che non era stato mitigato dalla storia della “capanna dello Zio Tom”, che non era rimasto mai suggestionato, o per lo meno dubbioso, dalle tante tate e nutrici nere che avevano assistito i figli dei bianchi, che non era stato mai nemmeno sfiorato dalle suggestioni dei libri come Furore di Johan Steinbeck e dai libri di William Faulkner.

    Quella stagione sarebbe continuata fino a quando non venne eletto Obama alla guida del paese.

    Quelle civiltà afro americana, aveva offerto a tutta la umanità prodigiose bellezze: il canto di New Orleans, la tromba di Armstrong, e, poi, pugili come Ray Sugar Robinson, Cassius Clay, ed altri; atleti dalla velocità stratosferica come Wilma Rudolph; artisti, ballerini, scrittori, in una commistione di culture, di sport, di musica, di razze, di colori, le cui divisioni sembravano essere superate dal fulgore del provvedimento di Lyndon Johnson, succeduto a Kennedy dopo il suo assassinio.

    John Fitzgerald Kennedy, era stato ucciso da un killer rimasto ignoto, anche se la cronaca lo individuò in Oswald, ma che probabilmente Oswald non era, e che mise fine, a Dallas, dal sesto piano di un palazzo adibito a libreria, alla vita incantata di John: macchina scoperta, aria trionfale, saluti esaltanti alla folla; il sorriso più bello ed infantile, gli proveniva da una vita avventurosa si, ma splendida.

    La storia si ripete ancora, purtroppo, ed ecco Ferguson nel Missouri, New York e tante altre città in cui la cieca barbarie antirazziale cova ancora.

    A quando una stagione di trionfale bellezza, di solidarietà, di autentica umanità?

     Franco Cianci

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