Due maxi calcolatrici inviate al direttore responsabile del quotidiano “il Centro”, Mauro Tedeschini, e all’impiegato che si occupa dei compensi dei collaboratori del giornale. Un gesto simbolico e provocatorio, promosso da 5EURONETTI – la rete dei freelance e precari dell’informazione abruzzese, per denunciare la condizione in cui versano decine di collaboratori del principale quotidiano abruzzese, che lavorano instancabilmente per pochi euro al mese, nel totale disinteresse dell’azienda. Una situazione analoga, identica, a quelle dei colleghi giornalisti che lavorano per i quotidiani molisani o per alcune “blasonate” testate on line.
Ad accompagnare le calcolatrici una lettera aperta, che rappresenta un vero e proprio sfogo dei giornalisti sottopagati. A partire da un editoriale di Tedeschini, in cui si parlava di “precarietà lavorativa e umana”, di fughe all’estero o di un “futuro ‘cinese’ in cui produrre e vendere merce a un prezzo che solo fino a un paio di anni fa avremmo considerato ridicolo”, i freelance di 5EURONETTI scrivono al direttore “per conto dei ‘cinesi’ della ‘sua’ azienda; ragazzi e ragazze, uomini e donne, spesso laureati, spesso con master, che lavorano al Centro nell’ombra“.
“C’è chi lavora tutti i giorni per meno di un euro a pezzo, ma ne scrive, due, tre, cinque al giorno – si legge nella lettera -. C’è chi lavora per poche decine di euro al mese, chi dice ‘domani smetto, domani basta, non scrivo più’, chi lo ha già fatto. In tantissimi assicurano disponibilità la domenica, rinunciano alle ferie o preparano articoli da lasciare nei giorni in cui, raramente, non possono assicurare la loro operatività. In tantissimi, quotidianamente, si avventurano senza nessuna garanzia in inchieste, reportage, articoli di cronaca rischiosi, così come è rischioso oggi anche solo fare un incidente con la macchina dei genitori, sapendo che poi non si è in grado di pagare i danni“.
“Non hanno contratti illegali, firmati in bianco oppure perfino inesistenti. Ma le paghe – prosegue 5EURONETTI –, quelle si che sono cinesi. E come i cinesi quei ragazzi non hanno prospettive, vivono in un eterno presente che non si sa se e quando diventerà futuro. Non possono fare programmi. Non hanno potere contrattuale. Non hanno ferie, corte, malattia. Sono dei numeri, distributori invisibili di idee e di parole. Sono pagati a pezzo. Il contratto, come gran parte dei contratti che quei ‘cinesi dell’informazione’ denunciano sulle pagine del Centro, varia a seconda delle persone. Alcuni hanno un fisso, altri un importo minimo ad articolo, ma spesso alle regole contrattuali non corrisponde la verità delle buste paga”.
“Abbia il coraggio di affrontare una questione che fa vergognare per primi gli stessi collaboratori – dicono i giornalisti precari a Tedeschini -. Si accorga di loro. Li conosca, stringa loro la mano, si preoccupi di come e di cosa vivono. Combatta con loro e per loro. Li aiuti a non essere invisibili. Li sostenga nella lotta per un compenso equo, dignitoso, umano. Li capisca, si immedesimi nelle loro vite. Si faccia portavoce con i gruppi editoriali, tutti i gruppi editoriali, del fatto che esiste una realtà che per molti versi è peggiore di quella che raccontano i giornali, e che invece è proprio dentro quei giornali”.
Di seguito il testo integrale della lettera aperta.
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LETTERA APERTA DAI ‘CINESI DELL’INFORMAZIONE’
Preg.mo direttore Mauro Tedeschini
Quotidiano “il Centro”
Pescara, 2 aprile
“(…) Ieri ripensavo ad un fornitissimo Iper cinese mentre leggevo sul Centro l’ampio servizio sui tanti cassintegrati di questa regione. Mi hanno colpito, in particolare, le parole di Paola Senesi, una giovane donna (laureata con tanto di master) vittima della crisi della Gieffe Moda di Sant’Egidio alla Vibrata, ex azienda leader nell’abbigliamento per bambini: «Sono costretta a vivere in famiglia, come potrei pagare un affitto? A 36 anni sento che mi stanno sfuggendo gli anni migliori della vita: mia sorella è nella mia stessa condizione, ma lei ha due bambini e io sono arrivata all’assurdo di dire che sono fortunata a non avere figli». A questo punto l’imperativo «è ridimensionare le aspettative»: inviare curriculum all’estero e prepararsi a un futuro gramo, in cui l’alternativa sarà tra espatriare o restare «in questa precarietà lavorativa e umana». Dunque la prospettiva è questa? Fuggire o prepararsi a un futuro “cinese”, in cui produrre e vendere merce a un prezzo che solo fino a un paio di anni fa avremmo considerato ridicolo, con stipendi e orari di lavoro infernali?”.
Caro Direttore,
riconoscerà certamente queste parole, perché sono sue. Chi le scrive però lo fa per conto dei “cinesi” della “sua” di azienda. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, spesso laureati, spesso con master, che lavorano al Centro nell’ombra. Non battono sui tasti in un sottoscala nascosto e spesso illegale. Scrivono da casa, da scuola, dai bar, dalla strada, dalla cameretta in cui molti ancora vivono da quando sono bambini, ma ad un’età che spesso è più di bilanci che di prospettive. Non hanno contratti illegali, firmati in bianco oppure perfino inesistenti. Ma le paghe, quelle si che sono cinesi. E come i cinesi quei ragazzi non hanno prospettive, vivono in un eterno presente che non si sa se e quando diventerà futuro. Non possono fare programmi. Non hanno potere contrattuale. Non hanno ferie, corte, malattia. Sono dei numeri, distributori invisibili di idee e di parole. Sono pagati a pezzo.
Il contratto, come gran parte dei contratti che quei “cinesi dell’informazione” denunciano sulle pagine del Centro, varia a seconda delle persone. Alcuni hanno un fisso, altri un importo minimo ad articolo, ma spesso alle regole contrattuali non corrisponde la verità delle buste paga. C’è chi lavora tutti i giorni per meno di un euro a pezzo, ma ne scrive, due, tre, cinque al giorno. C’è chi lavora per poche decine di euro al mese, chi dice “domani smetto, domani basta, non scrivo più”, chi lo ha già fatto. In tantissimi assicurano disponibilità la domenica, rinunciano alle ferie o preparano articoli da lasciare nei giorni in cui, raramente, non possono assicurare la loro operatività. In tantissimi, quotidianamente, si avventurano senza nessuna garanzia in inchieste, reportage, articoli di cronaca rischiosi, così come è rischioso oggi anche solo fare un incidente con la macchina dei genitori, sapendo che poi non si è in grado di pagare i danni. In tantissimi lavorano in silenzio, rispondono ai capricci dei redattori, delle redazioni, dei capi servizio, del gruppo editoriale, della gente di cui scrivono. Tirano avanti ogni giorno senza capire, senza poter fare domande, senza sapere.
Cambiano le regole, cambiano le redazioni, i contratti, i referenti. I “cinesi” del Centro non sanno e non devono sapere. Non è permesso fare domande (la base del giornalismo!) e se le fanno non ottengono risposte. Rappresentano il Centro per le strade di questa martoriata regione, ma il Centro non rappresenta loro, non li conosce, non sa dove e di cosa vivono. Quelle donne e quegli uomini non sono invitati alle inaugurazioni delle nuove sedi, né avvisati della chiusura di quelle vecchie. Sono utili, ma non indispensabili. Quante volte se lo sono sentiti dire! I collaboratori del Centro si ammalano anche, così come si ammalano i cinesi. Ma come accade ai cinesi, il resto del mondo, del loro mondo, non se ne cura. Non sa se le donne vogliano o possano avere dei figli. Non sa come fanno quelle che i figli ce li hanno. Non sa e non vuole
sapere come si vive con qualche decina di euro al mese. Eppure i collaboratori continuano a dare, ad essere presenti, a distribuire idee e parole, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
“Chi fa impresa in modo sano deve sentire il sostegno di un’intera collettività, come accade in Germania. Facendo quadrato attorno a quel che funziona”.
Lo ha scritto sempre lei. I collaboratori del Centro funzionano direttore? Fanno parte della macchina del Centro? Se si, se anche uno solo tra queste donne e questi uomini che lavorano nell’ombra è utile per l’andamento e il progresso dell’impresa-Centro, allora direttore lo scriva nel prossimo editoriale. Abbia il coraggio di affrontare una questione che fa vergognare per primi gli stessi collaboratori. Si accorga di loro. Li conosca, stringa loro la mano, si preoccupi di come e di cosa vivono. Combatta con loro e per loro. Li aiuti a non essere invisibili. Li sostenga nella lotta per un compenso equo, dignitoso, umano. Li capisca, si immedesimi nelle loro vite. Si faccia portavoce con i gruppi editoriali, tutti i gruppi editoriali, del fatto che esiste una realtà che per molti versi è peggiore di quella che raccontano i giornali, e che invece è proprio dentro quei giornali.
Cordiali saluti,
5EURONETTI – la rete dei freelance e precari dell’informazione abruzzese