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  • Filiera selvatica in Alto Molise, una ghiotta occasione «sabotata» dagli stessi cacciatori

    Tartare di cervo, ravioli di lepre e brasato di cinghiale alla tintilia. E’ il succulento menù a base di selvaggina portato in tavola dalla chef stellata Stefania Di Pasquo, al termine del convegno di studi “Sylvaticus” organizzato dall’associazione universitaria degli studenti Forestali del Molise (AUSF Molise), in collaborazione con il Comune di Agnone.

    La filiera di carne di bosco, che potrebbe rappresentare un utile strumento di rilancio per l’Alto Molise, convince non solo i docenti e ricercatori universitari che si occupano di gestione della fauna selvatica e di nutrizione, ma anche i politici e gli amministratori, a partire dal “padrone di casa”, il sindaco di Agnone, Daniele Saia, che ha portato il suo saluto istituzionale all’avvio dei lavori del convegno scientifico ospitato, nei giorni scorsi, presso palazzo San Francesco.

    L’intervento del sindaco di Agnone, Daniele Saia

    «Il processo di valorizzazione delle carni di animali selvatici cacciati può sicuramente rappresentare un valore aggiunto per un territorio, come appunto l’Alto Molise, particolarmente vocato all’attività venatoria e alla gestione faunistica delle specie animali. – ha esordito il sindaco e presidente della Provincia di Isernia – Questi momenti di studio e di confronto, insieme all’Università degli studi del Molise, vanno sempre incentivati, perché è solo confrontandosi che possono venire fuori delle utili idee per tutta la comunità e il territorio. Negli anni scorsi, insieme al Gal Alto Molise, abbiamo tentato di attivare questa filiera selvatica, di carne proveniente da animali cacciati, ma qualcosa è andato storto. Possiamo ripartire da quella esperienza, migliorandola e completandola, tenendo sempre in considerazione il giusto equilibrio che dobbiamo garantire tra la fauna selvatica e le attività antropiche».

    Linda Cerimele e l’assessore regionale Andrea Di Lucente

    Presente all’avvio dei lavori, moderati da Linda Cerimele, anche il vice presidente della Regione Molise, l’assessore Andrea Di Lucente. «Si pensa sempre che il rilancio delle aree interne dell’Appennino debba dipendere dalla fabbrichetta, dall’insediamento produttivo della multinazionale; mentre probabilmente sono altre le risorse sulle quali puntare, come appunto la selvaggina. L’ambiente dell’Alto Molise, la sua natura, i suoi boschi e dunque la sua fauna cacciabile, possono divenire delle straordinarie opportunità di rilancio per tutto il territorio. La Regione Molise sarà accanto agli imprenditori che vorranno lanciarsi in questo settore della filiera della carne selvatica, che tra l’altro mi pare sia molto più sostenibile di altre scelte».

    L’intervento del docente universitario e genetista Gabriele Senczuk

    Dopo i saluti e gli interventi dei politici si è entrati nel vivo dei lavori con le relazioni tecniche e scientifiche dei vari relatori. Il genetista e docente universitario Gabriele Senczuk ha smentito seccamente, dati scientifici alla mano, la “bufala” dei ripopolamenti di cinghiali con animali provenienti dall’Est Europa che sarebbero stati fatti intorno agli anni ’70 e di cui ci sarebbero anche testimoni oculari che evidentemente hanno preso lucciole per lanterne.

    «I dati genetici permettono di escludere ibridazioni dei cinghiali che vivono in Italia con ceppi provenienti dall’Europa dell’Est. L’ibridazione di cui tanto si parla non risulta dai dati scientifici e dalle analisi genetiche. Quello che emerge dai nostri studi è una modesta ibridazione dei cinghiali con i maiali domestici, ma in percentuale davvero bassa rispetto ai campioni analizzati». Aldo Di Brita, tecnico faunistico della Regione Lombardia, già docente Unimol, ha parlato di «fandonie» in merito a queste ipotetiche immissioni di cinghiali dall’Est, invitando piuttosto a concentrarsi sulla attivazione di una filiera di carne selvatica.

    «L’Università, la Regione Molise e il Gal Alto Molise avevano lavorato per l’attivazione di una filiera selvatica qui sul territorio, – ha spiegato Di Brita – ma l’Atc e gli stessi cacciatori non hanno collaborato, mandando all’aria tutto il lavoro fatto. L’Alto Molise è ricco di selvaggina, la filiera può rappresentare un utile strumento di gestione della fauna e per creare ricchezza e lavoro sul territorio, come tra l’altro avviene già in altre realtà del Centro Nord Italia o d’Europa». Sulla stessa lunghezza d’onda il neo eletto presidente dell’ordine dei medici veterinari Addolorato Ruberto: «Abbiamo tentato di trasformare un problema, quello della eccessiva presenza di ungulati, in una opportunità, creando una filiera selvatica, visto anche l’aumento della richiesta di questa tipologia di carne da parte dei consumatori. Purtroppo il tutto è stato bloccato, in qualche misura sabotato proprio dai cacciatori che, per inspiegabili motivazioni, sono contrari alla caccia di selezione e che invece è la modalità di prelievo fondamentale per rifornire una filiera selvatica».

    Primo da sinistra il presidente dell’ordine dei medici veterinari del Molise, Addolorato Ruberto

    Probabilmente il mondo venatorio di zona preferisce mantenere lo status quo, quello del mercato nero della selvaggina cacciata in braccata, tra l’altro di scarsa qualità, che pone anche serie problematiche di ordine igienico-sanitario. Il dottore Ruberto ha sottolineato infatti anche «il pericolo di carni che, senza alcun controllo di tipo veterinario e igienico, finiscono sulle tavole, anche dei ristoranti di zona».

    Per attivare una eventuale filiera di carne selvatica, infatti, sarebbe necessario rifornire la stessa con animali provenienti da abbattimenti in selezione, che permettono di ottenere carni di qualità elevatissime anche dal punto di vista nutrizionale e salutistico, come sottolineato dal professore Giuseppe Maiorano e dalla tecnica faunistica Antonella Labate in rappresentanza della Fondazione Una che ha lanciato il progetto “Selvatici e buoni“.

    Il tavolo dei relatori nella Locanda Mammì degusta un menù a base di selvaggina

    Le carni di selvaggina cacciata, carne di bosco, wild food, carne selvatica o comunque la si voglia chiamare, rappresentano una scelta alimentare che può rappresentare una validissima alternativa, tra l’altro più salubre e sostenibile dal punto di vista dei costi ambientali, rispetto all’allevamento intensivo. Animali nati liberi, allevati dalla natura senza alcun intervento dell’uomo, senza alimentazione forzata, né antibiotici preventivi, che se correttamente prelevati producono carni a chilometro zero dalle eccellenti proprietà nutrizionali.

    Inoltre l’attivazione di una filiera selvatica ha già dato prova, altrove in Italia, di poter rappresentare uno strumento di innesco e mantenimento di una economia territoriale che crea ricchezza e posti di lavoro, oltre che attrazione turistica e gastronomica. L’idea e il supporto scientifico ci sono, quello politico anche, manca solo la volontà imprenditoriale e soprattutto il coinvolgimento dei cacciatori, quegli stessi operatori che l’Unione Europea definisce «produttori primari di selvaggina». La battaglia, come spesso accade, è di tipo culturale, formativo ed informativo. Giornate di studio e approfondimento come “Sylvaticus” si inseriscono proprio in questa strategia di convincimento e innalzamento culturale del mondo venatorio.

    Francesco Bottone

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