In tempi di guerra, i silenzi fanno rumore. E anche le parole, soprattutto se pronunciate in Consiglio comunale, possono diventare strumenti di potere. Cosi accade che, di fronte ai massacri in Palestina, in Ucraina, in Sudan o altrove, alcune amministrazioni comunali si affrettino a redigere delibere per la pace. Documenti che, sulla carta, affermano valori nobili: rispetto dei diritti umani, cessate il fuoco, condanna della violenza. Ma dietro la retorica, quanto c’è di autentico impegno civile e quanto di calcolo politico?

Il sindaco che non dorme la notte
Da Nord a Sud, si moltiplicano le iniziative dal basso: fiaccolate, manifesti, comunicati in solidarietà con il popolo palestinese, o con le vittime ucraine, o con chiunque sia sotto le bombe. Ed ecco che il sindaco magari di un piccolo Comune montano scopre la geopolitica e decide di prendere posizione. Non può certo mandare soldati, ma una delibera può sempre farla. Meglio ancora se contiene parole forti: genocidio, apartheid, crimini contro l’umanità. E magari anche un bel riferimento alla Costituzione, che non guasta mai.

Ma a chi serve tutto questo?
Non ai palestinesi, purtroppo. E nemmeno agli israeliani in cerca di pace. Le delibere comunali non smuovono trattati né fermano i droni. Ma servono eccome a chi le firma. Per apparire coraggioso, impegnato, attento ai diritti umani. Una figura alta, che fa notizia. E magari guadagna anche qualche
punto tra gli elettori più sensibili.
Per carità: ci sono sindaci sinceri, attivi da anni nel campo della solidarietà internazionale, che non aspettano la guerra per organizzare incontri, accoglienza, aiuti. Ma poi ci sono anche gli altri. Quelli
che fino a ieri non avevano mai speso una parola sulla pace nel mondo, e che oggi forse perché e
di tendenza si improvvisano ambasciatori morali.
Tra coscienza e copertina
Il problema non è prendere posizione. Il problema è farlo solo quando conviene, quando garantisce
visibilità, quando può essere trasformato in un post virale o in una menzione su un giornale locale. E
il buonismo intermittente che infastidisce. L’indignazione a giorni alterni. L’umanità selettiva.
E intanto, mentre ci si interroga su chi abbia più ragione nei salotti televisivi e nei consigli comunali, la carneficina continua. Le bombe non si fermano con un comunicato. La pace si costruisce ogni giorno, con la coerenza, il silenzioso impegno quotidiano, l’onestà intellettuale. Non con le delibere-spot.
In conclusione?
Ben vengano i comuni che parlano di pace, ma meglio ancora se fanno qualcosa, se educano, se accolgono, se costruiscono reti. Altrimenti, e solo marketing morale. Perché, a volte, dietro un appello per la pace si nasconde un candidato in cerca di visibilità.
Nicola Tamburrino