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  • Capracotta in delirio: Manu Chao trasforma l’Alto Molise in una festa memorabile (video)

    Sono le 17,25 del pomeriggio quando la lieve brezza di montagna porta con sé il primo coro. Migliaia di persone, strette l’una all’altra, scandiscono il nome che aspettano da ore: Manu! Manu! Manu! Così, quando la sua voce intona il primo brano, Capracotta diventa il centro di un mondo che balla tra paesaggi che tolgono il fiato: Manu Chao regala al pubblico un’esperienza destinata a restare nella memoria collettiva.

    Cinquemila persone – sì, cinquemila anime festanti – hanno risalito le strade di montagna per convergere in località Fossato, ai piedi della pista di Monte Campo. Il cambio di location deciso all’ultimo minuto, dall’originale Prato Gentile, non smorza l’entusiasmo: al contrario, rende la serata ancora più speciale. Davanti agli occhi, un’immensa distesa verde trasformata in un’arena naturale. Attorno, montagne silenziose, come custodi di una magia pronta ad esplodere.

    Il colpo d’occhio è impressionante: un mare umano che si muove al ritmo della musica, mani alzate verso il cielo, sorrisi che si allargano, corpi che ondeggiano. Qualcuno si arrampica sui pendii per vedere meglio, altri seduti sull’erba con una birra in mano, aspettando l’icona che ha fatto ballare il mondo con le sue canzoni di libertà e speranza.

    Ad aprire le danze dell’Arsura Festival, la Riserva Moac, band molisana che non delude le aspettative: tamburi, fiati, suoni popolari e contaminazioni globali hanno l’aria e i cuori. Ma la vera tempesta sta per arrivare.

    Quando Manu Chao fa il suo ingresso sul palco, il sole inizia a calare dietro i monti, tingendo il cielo di sfumature calde. Lui è lì, seduto con la sua chitarra, cappellino calato sulla fronte, sorriso sincero. Nessuna scenografia hollywoodiana, nessuna distanza: solo musica, voce e un’energia che arriva dritta, senza filtri.

    Parte il primo accordo e l’aria vibra. Due ore e venti di concerto senza mai un attimo di pausa: un flusso di ritmi latini, reggae, punk e folk che si intrecciano come onde. La gente canta, salta, balla, abbraccia sconosciuti. È una festa collettiva, un rito pagano sotto le nuvole molisane.

    Manu non è solo un musicista. È un cantastorie del mondo. Tra una canzone e l’altra prende il microfono e parla, con voce calma ma ferma. Ricorda le guerre che insanguinano il pianeta, dalla Palestina ai conflitti dimenticati, e invita a non chiudere gli occhi. Le sue parole non sono proclami: sono carezze che diventano scosse, pronunciate con quella sincerità che lo rende unico. E il pubblico ascolta, riflette, applaude.

    Le immagini lo raccontano meglio di qualsiasi cronaca: Manu con le braccia aperte verso il pubblico, il compagno di chitarra che ride, la folla risponde con urla, cori, mani alzate. Non c’è barriera tra palco e prato, solo un filo invisibile di empatia che lega tutti in un’unica vibrazione. Lui non si risparmia, si piega in avanti, guarda negli occhi la gente delle prime file, sorride ai bambini sulle spalle dei genitori.

    Quando termina l’ultima nota, il sole tramonta e nell’aria resta la luce di qualcosa che non si spegnerà facilmente: la sensazione di aver partecipato a un momento irripetibile, sospeso tra musica e natura, tra gioia e consapevolezza.

    Capracotta, ieri sera, non era solo un paese di montagna. Era il centro del mondo.

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