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  • Cervelli in fuga: da Castelguidone agli Usa per fare ricerca

    Storie di emigrazione. Nel 2014. Perché dall’Italia, come agli inizi del Novecento, si va ancora via per cercare lavoro, fortuna o semplicemente per seguire il proprio sogno.
    E dopo la storia di Pamela Sciarra di cui ci siamo occupati nei mesi scorsi, la farmacista di Schiavi di Abruzzo, che ha lasciato un lavoro sicuro a Firenze per tentare la sorte in Australia, raccogliamo il diario di viaggio di Gabriella Di Stefano di Castelguidone.
    Cervelli in fuga, dunque, anche dall’Alto Vastese, perché fuori dall’Italia ci sono più opportunità soprattutto per chi, come Gabriella, lavora nel mondo della ricerca scientifica.
    Impegnata nel sociale e nella vita associativa del suo paese, per anni è stata presidente della Pro loco di Castelguidone, ultimati gli studi universitari a L’Aquila, Gabriella non si è fatta scappare l’occasione della vita: la possibilità di svolgere il dottorato di ricerca in America. Perché in Italia non si investe nella ricerca, non c’è spazio per i giovani.
    E così Gabriella è andata via e da qualche tempo vive a Cleveland in Ohio, Usa.
    E’ al terzo anno del dottorato di ricerca in Medicina Traslazionale.
    «Un’opportunità che mi è stata offerta grazie ad una collaborazione tra il Laboratorio di Patologia Clinica della professoressa Vincenza Dolo dell’Università degli Studi de L’Aquila e il laboratorio del professor Fabio Cominelli e della professoressa Theresa Pizarro presso la Case Western Reserve University di Cleveland in Ohio, dove da anni studiano il morbo di Crohn su un modello murino (una cavia, ndr) spontaneo di ileite cronica, con caratteristiche di infiammazione cronica intestinale del tutto simili a quelle riscontrabili nel Morbo di Crohn negli umani».

    gabriella pro loco
    Ma come è andata? Perché da Castelguidone sei finita negli Usa?
    «Conobbi il professor Cominelli nell’aprile del 2012 dopo un seminario che aveva tenuto all’Università de L’Aquila e così cominciai a pensare che un’esperienza all’estero sarebbe stata un’opportunità da non perdere, che mi avrebbe arricchita non solo professionalmente, ma anche culturalmente. Da lì la decisione, poi la burocrazia da sistemare per la partenza. Ho un visto di tipo J1 come research scholar presso la Case Western Reserve University, il colloquio in ambasciata, il console aveva detto di sì, insomma ero pronta».
    Un bel salto: da un piccolo centro dell’Abruzzo agli Stati Uniti d’America. Davvero un altro mondo.
    «Il mio viaggio negli States comincia il 20 marzo 2013, sono partita il giorno del mio compleanno tra gli auguri e gli in bocca al lupo di parenti ed amici; ero riuscita a trattenere le lacrime fino alla telefonata di mio zio Roberto (maestro in pensione e già sindaco di Castelguidone, ndr) in aeroporto proprio prima del check-in, erano le sette del mattino e lui mi augurava tanta fortuna. Un viaggio lungo, ma guardando tre films e leggendo un libro passò abbastanza in fretta».
    Già, il viaggio è il minimo, poi, una volta atterrata, è cominciata la tua nuova vita lì.
    «Arrivai a Cleveland e c’era la neve, ma poi arrivò la primavera. Le rondini no, ma gli scoiattoli e i cervi per strada sì; ogni giorno era una scoperta, dall’università al laboratorio fino alla spesa al supermercato. La primavera è stata il periodo della burocrazia e di nuove conoscenze, un viaggio a New York, la grande mela, la città delle mille opportunità, con i suoi palazzi altissimi e le luci colorate di notte, e poi la statua della libertà all’orizzonte. Ero in America».
    Dall’ombra dei monti dell’Alto Vastese a quella dei palazzi di New York e della statua della libertà, il sogno di generazioni di italiani partiti per gli Usa. Hai incontrato qualche “paesano”?
    «Sì, nell’autunno il mio viaggio in Pennsylvania invitata dalla famiglia Meo per festeggaiare il mio primo Thanksgiving. Il signor Giovanni Meo, originario proprio di Castelguidone, vive lì da molti anni. Giovanni mi ha raccontato del suo lungo viaggio con la nave per arrivare in Canada, dell’incontro con sua moglie Virginia».
    Non sei la sola giovane donna che in questi mesi ha lasciato l’Alto Vastese. Abbiamo raccontato la storia di Pamela Sciarra partita per l’Australia. Cosa ti senti di dirle sulle pagine dell’Eco? E soprattutto perché andare via, all’estero, e non tentare la fortuna qui in Italia?
    «A Pamela facccio un grosso in bocca al lupo; anzi come si dice da queste parti good luck e ai giovani italiani dico siate ambiziosi e abbiate coraggio, sicuramente bisogna essere competitivi e lavorare sodo, ma tutto ciò all’estero ha una giusta ricompensa sia in termini economici che professionali. Qui negli Usa il lavoro a tempo inderterminato quasi non esiste, ma le opportunità di trovarne uno sono maggiori che in Italia e un licenziamento non è percepito come un qualcosa di drammatico, ma come la possibilità di rimettersi in gioco con un nuovo lavoro, spesso anche in un’altra città anche molto lontana, in un paese, gli States, dove le distanze non esistono».
    Cosa ti manca dell’Italia? Ammesso che qualcosa ti manchi, ovviamente.
    «Il caffé no, nella valigia di un italiano non può mai mancare, la pizza e il sole sì. Però bevo molto volentieri un caffé americano in buona compagnia. Naturalmente mi mancano la mia famiglia, gli amici di sempre e quelli conosciuti, il mio paese, il laboratorio, i miei impegni in Italia e a L’Aquila, ma ne è valsa la pena».
    A distanza di mesi dalla tua partenza la domanda è d’obbligo: lo rifaresti?
    «Sì. Se tornassi indietro riprenderei quell’aereo che mi ha portata qui».
    E’ passato più di un anno da quando se lì negli Usa. Tempo di bilanci. E un’ultima domanda, ovvia: pensi di rientrare in Italia?
    «Questa esperienza mi ha arricchita, sia dal punto di vista lavorativo in quanto qui ho potuto ampliare le mie conoscenze in altri ambiti come ad esempio la biologia molecolare, che dal punto di vista umano perché ogni viaggio è un bagaglio di esperienze in più. A marzo 2015 terminerò il mio dottorato di ricerca e sarò disocupata, tornerò di nuovo in Italia, dove i tassi di disoccupazione sono altisssimi e si investe poco nella ricerca. Se ci fosse l’opportunità di continuare a lavorare qui nella ricerca resterei molto volentieri».

    Francesco Bottone
    effebottone@gmail.com

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