• Editoriale
  • Assassinio nel Palazzo di giustizia

    Quando ai principi degli anni 50, ebbi modo di leggere “Corruzione al palazzo di giustizia” (dramma in tre atti) di Ugo Betti – considerato dopo Pirandello il più grande drammaturgo italiano,  apprezzatissimo amico di Diego Fabbri, Massimo Bontempelli, Boventura Tecchi, Carlo Emilio Gadda, e fratello del grande giurista Emilio Betti, autore della monumentale opera il Negozio Giuridico e cattedratico alla Sapienza, nati entrambi a Camerino, nelle Marche, considerati come “mostri” per cultura e genialità –   ne rimasi fortemente frastornato e sorpreso, non riuscendo a capire come certi fatti potessero avvenire nella quasi sacralità di un tempio, quale ritenevo dovesse essere considerato un palazzo di giustizia.

    Quella storia riguardava da vicino persino il Presidente della Corte di Cassazione di Roma, in quel palazzo che i romani battezzarono subito come “palazzaccio” per le sue enormi e pesanti strutture, quasi rococò e nell’interno delle cui stanze si celebravano spesso le più oscure trame giudiziarie e non.

    Rimasi del pari sorpreso che, nell’interno di un tempio della giustizia e della legalità, potessero avvenire misfatti di quel genere.

    Avevo letto anche Assassinio nella Cattedrale (The Murder in the Cathedral) di Thomas Eliot, un americano, nato a Saint Louis nel 1888,  che aveva studiato ad Harvard, venuto, poi, alla Sorbona di Parigi, quindi, tornato ad Harvard e di nuovo in Europa, a Londra, dove ottenne la sua naturalizzazione inglese, Premio Nobel per la letteratura, insomma uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi, in cui si raccontava, l’assassinio di Sir Thomas Beckett ( Arcivescovo di Canterbury) .

    Nell’America latina, sarebbe, poi, accaduto l’assassinio di Mons. Romero.

    Sgomento, sussulti, seguirono a quelle vicende così clamorose e stupefacenti.

    Poco più di vent’anni dopo da quelle mie letture, che segnarono profondamente la mia vita interna, in un piccolo Tribunale meridionale, e precisamente Larino, nell’aula principale di giustizia, un uomo, evidentemente accecato da un delirio omicida, colpì alle spalle, con un vecchia pistola, un grande penalista, che in quel momento stava discutendo una causa penale .

    Quell’avvocato, che aveva lo studio in Larino –  una città di antichissime tradizioni forensi, nella quale, 2000 anni prima circa,  si era consumato un episodio di veneficio della moglie, da parte di Cluenzio, difeso nientemeno che da Marco Tullio Cicerone (“Pro Cluentio”, orazione famosissima ed affascinante, che qualche decennio fa venne ricordato in Larino da due affascinanti latinisti, quali Ettore Paratore e Salvatore D’Elia) – si chiamava Salvo Cariello: un uomo affabile, appassionato oratore, sempre pronto alla battuta.

    Era il maggio del 1975, in piena campagna elettorale per la seconda legislatura regionale : la notizia si propagò come un fulmine nel Molise e nessuno riusciva a capacitarsi di come potesse essere accaduto.

    Oggi, Milano, il grande palazzone di giustizia, di stile razionalista, nell’interno del quale si avvicendano ogni giorno, migliaia e migliaia di persone tra operatori di giustizia e clienti in attesa di giudizio, esplode il caso, drammatico, di un assassinio, quasi una strage, consumato da un modesto imprenditore, tale Giardiello, dichiarato fallito ed imputato di bancarotta fraudolenta,  incapace di rassegnarsi alla sua sorte, che superando con grande e sconcertante facilità i sistemi elettronici di controllo di un ingresso secondario riservato agli avvocati e ai magistrati, penetrava nel palazzo di giustizia.

    Con una freddezza lucidissima, entrava nella stanza dove stava operando il Giudice Ciampi, che egli considerava come autore delle sue sventure, con due colpi precisi, lo freddava all’instante.

    Incontrava, poi, il suo precedente difensore, avv. Lorenzo Claris Appiani, che freddava con pari lucidità e determinazione, e, poi, con la pistola in pugno e seminando terrore all’interno del palazzo, riusciva a guadagnare l’uscita, a cavalcare il suo scooter e a dirigersi verso una destinazione non precisamente conosciuta, dove voleva incontrare un suo presento nemico, un socio in affari.

    Un misfatto di terribile potenza evocativa, estremamente suggestivo nella molteplicità delle sue interpretazioni che naturalmente hanno trovato anche dei pro, come sempre accade, nella vita tumultuosa contemporanea.

    Naturalmente è subito sorto il balletto della responsabilità: ma se ci fossero stati i Carabinieri o la Polizia e non l’istituto di Vigilanza?

    E se i metal detector avessero funzionato bene, la pistola sarebbe stata rilevata ?

    In un paese come il nostro in cui si “sprecano” i legulei, i polemisti, i costruttori di ipotesi, si è scatenata la ridda su tutte le possibilità più gravi che potevano accadere nel frangente.

    E se qualche miliziano dell’Isis, nascosto tra i profughi che sbarcano quotidianamente a Pozzallo o a Lampedusa, fosse riuscito a strisciare silenziosamente come una biscia lungo lo stivale e fosse penetrato, con pari abilità, nell’interno di una struttura pubblica o un ospedale o in una scuola, strettamente fasciato da bombe, che cosa poteva, o potrebbe,  avvenire?

    I sistemi di sicurezza, non hanno, dunque, funzionato a dovere.

    E continua il pericolo della esposizione di questo nostro grande, ma anche sfortunato ed assaltato, paese, ad ogni sorta di evento.

     

    di Franco Cianci

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