Ironia della sorte, crudele e beffarda. Proprio oggi ricorre il 75° anniversario della Giornata nazionale in memoria delle vittime di incidenti sul lavoro. E ieri pomeriggio, nella chiesa di Santa Vittoria, una comunità intera si è stretta attorno a un feretro di legno chiaro, dentro il quale riposa per sempre Lino Paoletti, 26 anni appena compiuti, morto mentre faceva ciò che amava di più: lavorare la sua terra. Quella stessa terra dell’Alto Molise che lui aveva scelto di non abbandonare, che coltivava con passione e dedizione, che rappresentava il suo futuro e la sua scommessa contro lo spopolamento. Una terra tanto amata quanto ingrata, che insieme a sacrifici e fatiche ha lasciato questa volta una ferita che non si rimarginerà mai. Il tardo pomeriggio di giovedì, nelle campagne di Poggio Sannita, il trattore si è trasformato in un killer. E per Lino, il “gigante buono” come lo chiamavano tutti, non c’è stato nulla da fare. Le immagini dell’ultimo saluto restano impresse come fotogrammi indelebili di un dolore collettivo. La chiesa di Santa Vittoria, con le sue navate settecentesche e gli archi romanici, era troppo piccola per contenere la folla accorsa da ogni angolo dell’Alto Molise.

I vicoli del paese si sono riempiti di un fiume umano silenzioso: centinaia e centinaia di persone in fila, che scendevano dalle vie del borgo antico fino alla piazza, si accalcavano alle porte del luogo sacro, restavano in piedi fuori, sotto il sole di ottobre, pur di esserci. Dentro, le panche di legno stracolme, i corridori laterali gremiti, perfino lo spazio sotto l’organo occupato da chi non voleva mancare. Davanti all’altare maggiore, il feretro coperto da una cascata di rose bianche. Accanto, la fotografia di Lino: quel sorriso aperto, sincero, che raccontava più di mille parole chi fosse questo ragazzo. Uno che non si tirava mai indietro, che affrontava il sole cocente d’estate e il gelo pungente d’inverno con la stessa determinazione. Che dopo la scuola aveva scelto di investire il proprio futuro nei campi, restando accanto alla famiglia, quando tanti suoi coetanei avevano già fatto i bagagli e preso la strada dell’emigrazione.
Il silenzio della chiesa era rotto solo dai singhiozzi sommessi, dal pianto trattenuto a fatica. Quando don Paolo Del Papa ha iniziato a parlare, la sua voce tremava per l’emozione. “Un martire del lavoro”, ha detto il parroco, scegliendo parole che pesavano come macigni. “Un galantuomo che all’età di 26 anni, nel fiore della sua vita, ha deciso di coltivare la sua passione nella terra in cui è nato e voleva continuare a vivere”. In prima fila, papà Domenico stringeva tra le mani un fazzoletto. Accanto a lui, la moglie, Gina e le figlie Dina e Nadia distrutte dal dolore, annichilite da una sofferenza che nessuna parola può descrivere. “Il dolore di questa famiglia”, ha continuato don Paolo con voce rotta, “è come quello di Maria ai piedi della Croce. Un dolore che trafigge l’anima, che toglie il respiro, che sembra non lasciare spazio ad altro”.

Poi, dopo una pausa carica di commozione, il sacerdote ha cercato di offrire una luce nell’oscurità: “Ma la vita va avanti, e dobbiamo ringraziare Dio per averci concesso la possibilità di vivere e conoscere questo angelo dal nome Lino, che si faceva in quattro per dimostrare a tutti che anche a Poggio Sannita un futuro è possibile”. Le parole di don Paolo hanno poi assunto il tono di un testamento spirituale, un’eredità che la comunità deve raccogliere: “Lino era una promessa di questa terra, una speranza per questi territori afflitti da mille problemi, nei quali abitano ragazzi che non vogliono arrendersi a quanto accade quotidianamente. Ragazzi che credono ancora che restare sia possibile, che coltivare la propria terra non sia un gesto folle ma un atto d’amore e di coraggio”. “Ecco”, ha concluso il parroco mentre in chiesa non c’era più nessuno con gli occhi asciutti, “Lino rappresentava tutto questo. E nel solco di quanto fatto, dovrà essere un esempio per i coetanei e le giovani generazioni. Il suo sacrificio non può essere vano”. Lino era conosciuto e stimato ben oltre i confini del suo piccolo paese.
A Belmonte del Sannio, ad Agnone, nei borghi vicini, tutti avevano una storia da raccontare su di lui. Un favore fatto senza chiedere nulla in cambio, una mano tesa nei momenti di bisogno, quella battuta sempre pronta per strappare un sorriso anche nelle giornate più dure. Nei giorni precedenti il funerale, la casa funeraria è stata meta di un pellegrinaggio ininterrotto. Amici d’infanzia, compagni di scuola, colleghi di lavoro, semplici conoscenti: tutti hanno voluto lasciare un fiore, un pensiero, un ultimo saluto. Sui muri del paese sono apparsi manifesti a decine, forse centinaia.

“Ciao Lino”, “Non ti dimenticheremo mai”, “Riposa in pace gigante buono”. Una bacheca improvvisata di dolore e memoria che tappezza le pietre antiche del borgo, testimonianza visibile di quanto questo ragazzo fosse amato. Quando le note solenni dell’organo di Santa Vittoria hanno accompagnato l’uscita del feretro, fuori si è compiuto l’ultimo, straziante atto di questo dramma collettivo. La marea di persone che non aveva potuto assistere alla celebrazione si è aperta in un corridoio umano. E mentre la bara veniva portata verso il carro funebre, è esploso un applauso. Lungo, liberatorio, carico di tutto il dolore che le lacrime non riuscivano più a esprimere. Un applauso per Lino, per la sua vita breve ma intensa, per la sua scelta coraggiosa di restare, per il suo sorriso che non si spegnerà mai nella memoria di chi lo ha conosciuto.

Un applauso per un “gigante buono”, per un lavoratore instancabile, per un ragazzo che rappresentava la speranza di un territorio che lotta ogni giorno contro l’abbandono e lo spopolamento. Un fiore spezzato troppo presto, come hanno scritto in tanti sui manifesti funebri. Ma un fiore il cui profumo continuerà a diffondersi nelle campagne di Poggio Sannita, tra quegli ulivi che Lino curava con dedizione, in quella terra che lui amava e che ora lo custodirà per sempre. Resta, sospesa nell’aria come un macigno, quella domanda che nessuno riesce a scacciare: perché? Perché un ragazzo di 26 anni, nel pieno della vita e dei sogni, deve morire così? Perché il lavoro, che dovrebbe essere fonte di dignità e realizzazione, continua a mietere vittime? Perché proprio nel giorno in cui si celebra la memoria di chi ha perso la vita lavorando, dobbiamo dare l’ultimo saluto a un altro giovane caduto nei campi? Non ci sono risposte facili. Ma c’è l’impegno, solenne e non derogabile, che questa comunità deve prendere: fare in modo che il sacrificio di Lino non sia stato vano. Che la sua memoria sia monito per una maggiore sicurezza, stimolo per non abbassare mai la guardia, esempio per le nuove generazioni di cosa significhi amare la propria terra fino all’ultimo respiro.

Poggio Sannita oggi è un paese in ginocchio. Ma è anche un paese che, nell’abbraccio collettivo di ieri, ha dimostrato di sapere ancora cosa significa comunità, solidarietà, appartenenza. Valori che Lino incarnava e che ora, più che mai, devono guidare il cammino di chi resta. Ciao Lino. Riposa nella tua terra. Quella terra che hai amato e che non hai mai tradito.