SESSANTOTTO arrivi di profughi, migranti, richiedenti asilo o chiamateli come volete. Quaranta partenze volontarie, allontanamenti, fughe, anche qui sceglietevi il termine che più vi piace. Non è il traffico giornaliero di un piccolo aeroporto di provincia, ma è quanto accaduto, in venti giorni appena, a Schiavi di Abruzzo. La questione, lo avrete capito, è quella dei profughi.
Il saldo, al momento, parla di appena ventotto profughi, tra pakistani e somali, ospitati nella struttura di accoglienza gestita da Matrix sul Monte Pizzuto a Schiavi di Abruzzo. A tre settimane dall’apertura del centro, il bilancio è questo. Gli altri quaranta? Dileguati, dispersi, andati via, allontanatisi volontariamente dal centro di accoglienza loro assegnato. Tecnicamente si sono resi irreperibili. Non sono clandestini, perché hanno dei documenti provvisori, ma non sono neanche regolari, perché non hanno ancora avuto lo status di rifugiati politici. Una situazione fumosa che solo in Italia, un paese barzelletta amministrato da simpatici umoristi, può verificarsi.
Si tratta di somali, siriani e palestinesi che sono stati nel centro di accoglienza di Schiavi solo poche ore. Arrivati nel cuore della notte, hanno dormito qualche ora, fatto colazione e subito sono andati via, a piedi, in auto, con l’autostop, con gli autobus di linea. Una partenza premeditata dunque, perché non hanno avuto neanche il tempo materiale di verificare le condizioni di vita nel centro di accoglienza.
Quaranta profughi che hanno deciso di non restare a Schiavi nel pur confortevole centro di accoglienza allestito da Matrix, ma di andare altrove, per ricongiungersi magari con amici e parenti a Roma, Milano o in altre città del Nord. Quaranta profughi deportati a Schiavi, a mille e duecento metri di altitudine, dalla Sicilia o dalla Puglia. Ottocento, quasi novecento chilometri. Ore e ore su traghetti e autobus, un viaggio estenuante per arrivare fin quasi sulla cima del Monte Pizzuto. Un viaggio a spese dei contribuenti ovviamente, del Ministero dell’Interno. E un viaggio inutile visto l’immediato fuggi fuggi. Soldi buttati.
La domanda, allora, nasce spontanea: perché deportare a Schiavi, in mezzo ai monti innevati dove osano solo i nibbi e quelle maledette pale eoliche dei signori del vento, delle persone che hanno già deciso di andare altrove?
Non sarebbe più logico e anche più rispettoso della loro volontà, una volta sbarcati e più o meno identificati, lasciarli liberi di andare dove vogliono senza deportarli in questo o in quel centro di accoglienza (tra l’altro a spese degli italiani, ndr)?
I profughi si sentirebbero più liberi e l’Italia spenderebbe meno denaro pubblico in inutili traduzioni.
Sembra evidente che non hanno alcuna intenzione di essere accolti, ancor meno integrati, altrimenti non andrebbero via dopo qualche ora dall’arrivo nei centri di accoglienza.
Perché quello che accade a Schiavi, dove due profughi su tre vanno via appena arrivati, non può essere un caso isolato. E’ questo l’andazzo evidentemente.
E’ questa l’accoglienza e l’integrazione di cui tutti, spacciandosi per filantropi e disinteressati benefattori dell’umanità, si riempiono la bocca?
E, in ultima analisi, si può accogliere chi non vuole essere accolto? O meglio è giusto farlo?
A queste persone interessa una sola cosa: sbarcare in Italia, per poi andare altrove. Dove vogliono loro, non dove decidono i prefetti, i sindaci e gli imprenditori umanitari.
Non hanno alcuna intenzione di farsi una villeggiatura pagata a mille e duecento metri a Schiavi di Abruzzo. E allora, di grazia, perché continuare a portarceli, anzi a deportarceli?
Francesco Bottone
effebottone@gmail.com
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