AGNONE – Medici in pensione mai sostituiti e macchinari fuori uso. E un primario che, sfiduciato, getta la spugna e va via. Sembra la fotografia della disastrosa realtà dell’ospedale “Caracciolo” di Agnone. In realtà nell’articolo, pubblicato sul blog Medicinainterna e sottoposto all’attenzione dei lettori dalla ex parlamentare e medico radiologo Maria Amato, l’ospedale e i reparti in questione sono altri,, non quelli di Agnone. La dottoressa Amato, nota ad Agnone per il suo impegno in favore del “Caracciolo” durante il suo mandato in Parlamento, non indica la località, non dice di quale ospedale si tratta, forse per rispettare la privacy del suo collega medico primario. Ma trattandosi appunto di una situazione del tutto analoga a quella dell’ospedale di Agnone abbiamo deciso di pubblicare integralmente questa struggente lettera di un medico scoraggiato dalla burocrazia e dalla politica sanitaria sulla pelle di medici, infermieri e pazienti, dall’eloquente titolo “Le dimissioni di un primario“.
«Sono primario da 15 anni. Sono arrivato con entusiasmo, volevo rivoluzionare il reparto, rivedere tutti i protocolli, seguire le ultime linee guida, procurare le più moderne attrezzature. Mi sono circondato da persone fantastiche: colleghi giovani, motivati, collaborativi; mi guardavano e mi seguivano cercando di imparare da me il più possibile; io – a mia volta – cercavo di farli crescere con discussioni collegiali ogni mattina, incontri formativi settimanali e inviandoli a corsi in giro per il mondo per apprendere tecniche e nozioni che poi avrebbero portato nel nostro reparto. Anche l’equipe infermieristica era straordinaria: ci siamo impegnati per creare percorsi operativi corretti, abbiamo collaborato nei casi più difficili con ottimi risultati, erano in grado di riconoscere immediatamente variazioni acute del quadro clinico allertandoci subito e fornendoci già tutti i dati necessari. Certo, non è stato facile: prima di costruire il gruppo, ci siamo scontrati – lo so che non ho un carattere facile – ma sono stati scontri costruttivi, sempre nel rispetto del collega o del professionista, con conseguente crescita di tutti.
Poi è andato in pensione il collega più anziano del reparto e non è stato sostituito. Ho chiesto e richiesto più volte la sostituzione, ma nulla … il bando non usciva. Parlavano di blocco temporaneo delle assunzioni e di risparmi sul personale … le mie lamentele erano inutili. Ho dovuto suddividere le ore del collega pensionato tra gli altri colleghi rimasti, non è stato facile. Nel nostro reparto dovevamo coprire guardie notturne e diurne. Hanno iniziato tutti a fare tante ore in più. Ore di straordinario non pagate, e non si poteva neanche chiedere recupero visto il personale ridotto. Facevamo fatica. Giulia – la più giovane – aveva due bimbi piccoli e mi faceva veramente dispiacere vederla barcamenarsi tra l’impegno di non lasciare troppi casi pendenti al collega e la necessità di correre a casa per vedere della famiglia.
Io continuavo a bussare in direzione, ma nulla. La sostituzione non arrivava, dovevamo arrangiarci. Non potevo continuare a permettere che facessero troppe ore in eccesso, e ho dovuto pertanto mettere di notte un solo collega di guardia invece di due, con guardie notturne che inevitabilmente diventavano molto più pesanti e li esponevano a maggior rischio di errori e quindi di conseguenze medico-legali.
Avevamo un vecchio ecografo in reparto. Ho cercato di mandare tutti i componenti della mia equipe a fare corsi ecografici sia di base che avanzati, ognuno si specializzava nella branca di maggior interesse, in modo da poter fare diagnosi e trattamenti più accurati e più sicuri.
Ma un giorno l’ecografo si è rotto. Carte su carte e telefonate per chiamare l’assistenza che ci ha dato esito negativo: non si poteva aggiustare. E allora carte su carte per acquistarne uno nuovo. Siamo ancora in attesa. E nel frattempo i colleghi – non potendo mettere in pratica le conoscenze acquisite ai corsi – le andavano lentamente perdendo.
I colleghi erano sempre più stanchi. Franco – uno dei più motivati – che si sobbarcava oltre un’ora di strada per lavorare con me – un giorno mi dice, con le lacrime agli occhi, che non ce la fa più. Se deve lavorare così, mi dice, tanto vale lo faccia nell’ospedale più vicino a casa. Non posso che comprenderlo. Ora siamo quindi sotto di due persone. Mi chiedo – se anche arrivasse l’ecografo – se avremmo tempo di utilizzarlo in modo adeguato, o se toccherebbe usarlo in maniera “usa e fuggi”, non certo per esami ecografici accurati e refertati come avevo cercato di addestrare il mio gruppo a fare.
E poi ci sono i pazienti. Tutto ciò che ho fatto, oltre a valorizzare i colleghi, è stato per i pazienti. Ho sempre tentato di metterli al centro di tutto, curarli e trattarli con professionalità e umanità. Eppure negli ultimi tempi è stato molto difficile. Intanto – per rispettare standard americani o canadesi – era diventato tutto più burocratizzato e lento; perfino le lettere di dimissioni prevedevano tante voci prestampate su cui dovevamo segnare “si” o “no”, di nessuna utilità né per il curante né per il paziente.
Poi i pazienti risentivano inevitabilmente del calo di personale per cui veniva tagliato il tempo per dialogare con loro, cercando di mantenere almeno il tempo per curarli. Ma anche il dialogo è fondamentale.
Si ritrovavano in stanze da tre, che sarebbero state in realtà stanze da due. Quando anche tutti i letti soprannumerari erano stati occupati, bisognava mandarli fuori reparto, ad esempio nei letti di otorino o di oculistica, che si trovano proprio in un altro padiglione, con tutti i rischi connessi: non erano sotto il controllo stretto della mia equipe, e – una volta al giorno – uno dei miei medici doveva lasciare il reparto per andare da loro.
Ho scritto, compilato carte, protestato. Non era dignitoso per i pazienti, non era sicuro, era un rischio specie nel caso di instabilità o complicanze; ed era un rischio anche per i miei collaboratori che oltre ad effettuare più ore del dovuto, dovevano anche seguire un numero maggiore di pazienti rispetto al previsto. Per me tutti i miei collaboratori – infermieri inclusi – erano un po’ dei supereroi: eppure ancora non avevano sviluppato il dono dell’ubiquità, ne quello di fermare il tempo, ne quello di non percepire la stanchezza.
Erano sempre più stanchi. Facevo difficoltà anche a coprire i turni quando uno si recava ai corsi di aggiornamento. I parenti si lamentavano con me perché i medici gli dedicavano poco tempo ai colloqui … come potevo spiegargli tutto questo? Ho continuato a chiedere più letti e più personale. Nulla. Mai nessuna risposta. Poi, leggendo sui giornali, parlavano di tagli al personale e ai posti letto… un personale, quello medico, che non vede il rinnovo del contratto da oltre 10 anni.
Ho combattuto, ho chiesto, ho richiesto, ho protestato. Ho lavorato tanto, ho condiviso e coperto tanti turni con i colleghi, ho cercato di fare del mio meglio per curare bene i pazienti e per valorizzare i colleghi. Ma in queste condizioni, non ce la posso più fare. Ho fallito probabilmente. Ma accettare di lavorare in un reparto con un numero di ricoveri superiori rispetto ai posti letto, con il personale ridotto allo stremo, con rischi per medici e pazienti mi rende – come primario – complice di tutto questo. Ho fallito. Spero che il mio successore sia più manager di me. Spero che riesca a stare nel suo studio a compilare tabelle, schemi e obiettivi. Io sono un medico, e di questo ne vado fiero.
Quindi lascio. Prendetelo come un atto di codardia, di paura, di incapacità … o di rispetto della dignità mia, dei miei colleghi e dei mie pazienti. Prendetela come un atto di ribellione. Qualcuno capirà?