Il 29 giugno del 1990 nasceva al Cielo Monsignor Filippo La Gamba (in foto), un uomo, un sacerdote ed un parroco vissuto ad Agnone per 27 anni. Quest’anno ne cade il 25esimo anniversario: un’occasione felice per ricordarlo e farlo conoscere.
Venticinque anni sono tanti, ma il tempo non cancella mai abbastanza se il ricordo è forte e solcato da momenti importanti. Di ogni persona che ci lascia possiamo farla morire due volte: una nel distacco, l’altra dimenticandola. Se riflettiamo un poco, troveremo che l’unica battaglia seria da combattere è contro il tempo che avanza, sì il tempo, che prossimo o remoto, può essere riportato al presente scrutando e investigando nella memoria.
Proprio di fronte al male peggiore di questa nostra cultura, della fretta e dell’emozione immediata direi, che non vuole scomodarsi alla “fatica” di ricordare, bisogna ribadire con forza che noi siamo solo anelli di una catena: se sappiamo agganciarci possiamo trasmettere a chi ci sarà dopo di noi, altrimenti saremo nel caos.
Don Filippo fu parroco di Sant’Emidio in Agnone dal 4 Novembre 1963 al 29 Giugno 1990, giorno della sua morte. Venne da Frosolone, suo paese natale, dove era stato parroco nella Parrocchia di san Pietro apostolo dai primi anni del sacerdozio insieme al glorioso don Giuseppe Trillo e poi dopo la morte di Monsignor Nicola Marinelli, dietro concorso che vinse, fu parroco di Sant’Emidio appunto.
Non furono facili i primi anni nella cittadina altomolisana, per l’inserimento e fattivamente per la cattiva mentalità, allora tanto in voga, che lo vedeva il primo parroco “forestiero”, cioè non agnonese, cosa questa, che lo fece soffrire molto e lo costrinse ad armarsi di santa pazienza perché gente e clero lo conoscessero ed apprezzassero per chi era e non per dove era nato!
Il Signore fu dalla sua parte. Sin dai primi momenti si distinse per un’azione pastorale senza precedenti. Don Filippo arrivò in Agnone mentre il Concilio Ecumenico Vaticano II era in corso e per questo poté lavorare a pieno regime e nel clou delle sue forze giovanili all’attuazione dei dettami, lavoro questo, più difficile dei dibattiti affrontati dai padri conciliari.
Dal Concilio la Chiesa Cattolica ne è uscita con un’idea chiave mai prima d’ora tanto ribadita e studiata circa la corresponsabilità dei laici nella vita interna della Chiesa.
Questo significa che girare l’altare verso i fedeli o dire la Messa in italiano non è stata gran cosa se prima ancora, sacerdoti e vescovi non hanno compreso di dover girare la loro mentalità verso l’uomo e l’uomo in divenire. Don Filippo fu tra i più intelligenti. Già in precedenza con l’amico don Dante Rossi aveva condiviso un sistema educativo buono ed efficace: amava responsabilizzare le persone. Invogliava a cooperare, a tuffarsi senza temere. Anziani, adulti, giovani e bambini, tutti avevano un ruolo fondamentale nella sua idea di comunità e prima di dire e insegnare loro, li ascoltava, li voleva sempre con sé… trovava lui stesso gli impegni, gli svaghi, nutriva il cuore e la mente e capiva anche di esigenze concrete, perché si poneva accanto, non di fronte, non sopra, semplicemente accanto.
Ad Agnone volle che la gente prima di tutto fosse in Chiesa, nell’Eucaristia, poi nell’Azione cattolica, nelle recite della Santa Infanzia, nelle illimitate gite, nei lavori manuali, nella redazione del notiziario Emidiano, nelle sale parrocchiali per giocare a biliardino, nell’Archeoclub, nelle partite a bocce, nella scuola teologica per laici, nel catechismo, nel coro emidiano…e in tante, tante altre iniziative.
Verso la fine degli anni 60 e quelli immediati di inizio 70, incentivò la messa beat nella chiesa di Maiella, con tanto di batterie, chitarre e tastiere. I “più tradizionalisti” lo tacciarono di dissacrazione, la gente e i giovani risposero con una coralità impressionante. E mentre tante altre chiese andavano svuotandosi per la crisi del ’68, quella di don Filippo viveva una stagione primaverile dello Spirito, semplicemente perché non aveva paura dell’innovazione e di dialogare con una generazione nuova.
Chi ha memoria ricorda una Parrocchia più affollata della migliore piazza del paese e a nessuno veniva in mente di trascurarla per andare ad indovinare momenti migliori altrove.
Don Filippo aveva sempre una parola elegante e raffinata per tutti, ti accoglieva con un sorriso vero e ti faceva subito sentire a casa. Era ricercato come omileta preparato e capace comunicatore. Collaborava spesso alle radio locali Radio Rama e Radio Agnone1, per rubriche culturali-religiose o semplici dibattiti. Era molto colto e amava leggere tanto. Stare a Sant’Emidio dove poteva curarne la Biblioteca, era quasi il suo luogo naturale in cui la Provvidenza lo aveva posto. Ma i libri non erano suoi, come amava ripetere, erano dei parrocchiani innanzitutto e poi di chiunque li avesse voluti consultare. Non era geloso dei beni della sua Parrocchia.
Il suo valente contributo resta negli articoli editi dall’Almanacco del Molise tra gli anni 1973-1988 e si tratta per lo più di ricerche storiche, preziose per un discreto apparato critico, ma la sua pietra miliare consiste nella pubblicazione degli Statuti e Capitoli della terra di Agnone, Athena Mediterranea, Napoli 1972, in cui furono tradotti i codici civili di Agnone che vanno dal XV al XVII secolo.
Va ricordato poi che la prima festa del libro, che ha conosciuto edizioni esaltanti e culturalmente rilevanti ed al presente tristemente interrotta, iniziò dietro idea e impulso di don Filippo, fortemente coadiuvato da Monsignor Salvatore Moffa, con una mostra nel 1982 nei locali della biblioteca comunale in via Verdi, con tanto di conferenza sul libro antico, e l’esposizione di volumi emidiani di notevole interesse storico-culturale.
Nel 1985 nella chiesa di santa Chiara ad Agnone, curò la mostra del museo Emidiano con i preziosi oggetti presenti in parrocchia, e per l’occasione ottenne dalla Soprintendenza il restauro di parecchie opere d’arte. Ne resta la memoria in un volume pubblicato postumo alla mostra.
Verso la metà degli anni 80 propose ai professionisti locali la fondazione del Rotary International Club, che si ispira a sentimenti cristiani per favorire progetti umanitari in vista del bene comune. Attualmente questa associazione esiste ancora.
Spesso per la solennità del Natale componeva alcuni versi, sempre belli e profondi, che usava poi come auguri da dare ai suoi parrocchiani. Un “peccato”, quello della poesia che aveva contratto già dai tempi del seminario a Chieti, dove con il compagno di classe, il musicista provetto Ottavio de Cesaris, aveva dato vita a splendide composizioni. Tra le ultime poesie c’è quella del dicembre 1989, dal titolo Amica flebo, in cui scrive di voler diventare come una flebo, «capace di lenire le arsure di chi soffre e non ha fede».
Fece vivere alla parrocchia di Sant’Emidio una stagione ricca di entusiasmo e di cultura. Diede educazione a diverse generazioni di giovani, iniettando senza volerlo, una punta di orgoglio in chi lo poteva vantare come parroco proprio. Si ammalò ancora giovane e tenne alta la sua dignità e la sua fede anche in mezzo alle sofferenze che Dio gli permise.
Dal maggio 1987 fu chiusa per lesioni la chiesa di Maiella, nell’autunno 1988 quella di Sant’Emidio, la sua malattia andò peggiorando durante tutto il 1989. Non celebrò più nella chiesa dell’Annunziata (l’unica agibile della parrocchia), ma si ostinò a farlo, nonostante il parere contrario dei medici, nella sala parrocchiale di Sant’Emidio, perché aveva bisogno di vedere la sua gente, diceva.
Morì nel giorno sacro ai due apostoli che avevano fecondato Roma con il loro sangue. Ai suoi funerali presieduti dal Vescovo diocesano Monsignor Santucci, si unirono anche i suoi due compagni di classe Mons. Ettore di Filippo, Arcivescovo di Campobasso e Mons. Antonio Valentini, già Vescovo di Trivento e Arcivescovo di Chieti-Vasto, che lo ricordarono con affetto sincero.
Sul sagrato della chiesa dell’Annunziata il sindaco On. Remo Sammartino prendendo la parola iniziò così il suo elogio funebre: «chiusero il tempio e caddero le colonne», poi lo celebrò come l’ultimo oratore sacro dato ad Agnone, ne disse le doti e i titoli, ne parlò come si conviene ad un grande uomo, prendendo atto della fine di un’epoca.
Ma i suoi che l’amavano sapevano di aver perso non solo questo, sapevano di aver perso un padre come pochi, capace di amare, capire, guidare. Uno che diceva quello che pensava, che non si accodava alla massa, che invitava ad uscire dalle tante omertà e da una cultura campanilisticamente opprimente. Un uomo vero, perciò vero prete e quindi ottimo pastore, di quelli che ti lasciano il segno per sempre. Per questo non fu amato da tutti e anzi da alcuni fu avversato molto. Ma questo è il senso dell’essere cristiani: accettare di morire per poi risorgere.
Quando lo accompagnammo a Frosolone era ormai sera, nel lungo e tradizionale giro delle chiese, tra i confetti che le anziane tiravano su quella bara, mentre lo riconsegnavamo alla sua gente, capimmo che non era più soltanto nostro. A noi, orfani, restava il suo ricordo, vivo nell’Eucaristia, intimo nei nostri pensieri, inviolabile da qualsiasi oblio.
Don Paolo Del Papa