I sette nani erano quelli di Biancaneve, i sette anni sono invece quelli relativi alla chiusura al traffico del viadotto sul Sente, ma sempre di favole si tratta. Il 18 settembre del 2018, sette anni fa appunto, il comparto tecnico della Provincia di Isernia, retto da un geometra, firmava l’ordinanza di chiusura al traffico dell’imponente viadotto tra Castiglione Messer Marino e Belmonte del Sannio per motivi di sicurezza dettati da un «imminente rischio crollo» calcolato non si sa bene con quali indagini o competenze.

Da allora ne è passata di acqua sotto quei piloni considerati instabili, ma che invece sono ancora lì. E oltre all’acqua del Sente, scorrono, da anni, le dichiarazioni dei politici di vario rango e partito. La vicenda del Ponte “Longo” sul Sente è divenuta ormai una barzelletta, tanto che qualcuno ora propone di far diventare quel viadotto un «monumento nazionale all’attesa».

Lo fa un nostro lettore, Nicola Tamburrino, con una lettera aperta inviata alla nostra redazione, che in realtà è un pezzo giornalistico che, con ironia, racconta i disagi quotidiani di chi vive tra Alto Molise e Alto Vastese e quel ponte non ce l’ha più.

«Ponte Sente: il monumento nazionale all’attesa. – scrive Tamburrino – C’è chi ha il Colosseo, chi la Torre di Pisa. E poi ci siamo noi, con il Viadotto Sente-Longo: chiuso dal 2018 per problemi di sicurezza e trasformato, senza volerlo, in uno dei più grandi monumenti all’attesa della storia d’Italia.

Il ponte collega il Molise, Belmonte del Sannio, Isernia e l’Abruzzo, Castiglione Messer Marino, Chieti. Era la via più diretta tra l’Alto Molise e l’Alto Vastese verso la costa adriatica. Da sette anni, però, chi vive in queste zone deve fare decine di chilometri in più per andare a scuola, a lavoro o anche solo per una visita medica. Nel frattempo non sono mancate le visite illustri.

C’è chi è arrivato in modalità “cantiere aperto” senza cantiere: foto, abbracci, proclami. «Entro l’estate riapriamo», è stato detto (dal Ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Matteo Salvini, ndr). Solo che nessuno aveva specificato l’anno. Forse il 2084, ma per un malinteso giornalistico ci eravamo illusi fosse il 2024. Ora dicono che i lavori sono partiti. Anzi, li hanno pure inaugurati: forbici, nastro, applausi, pacche sulle spalle.

Peccato che, tornando il giorno dopo, i cittadini abbiano trovato lo stesso panorama: ponte chiuso, traffico deviato e cartelli “lavori in corso” senza un’anima viva nei dintorni. Una nuova forma d’arte contemporanea: l’installazione permanente dell’assenza. Il bello è che ogni lotto dei lavori ha il suo rito: primo lotto, conferenza stampa; secondo lotto, taglio del nastro; terzo lotto, forse un festival internazionale della lentezza. Il risultato?

I piloni resistono, i cittadini un po’ meno. La notizia che circola è che, quando e se il ponte riaprirà, sarà “parziale”. Traduzione: potremo passarci solo con motorini 50cc e forse a piedi, ma senza zaini pesanti. Un po’ come dire a un malato: «Non possiamo guarirla, ma le promettiamo un leggero sollievo nei giorni di sole».

Conclusione: il ponte che unisce… solo nei ricordi. Il viadotto Sente doveva unire due regioni, due comunità, due economie. Oggi unisce solo nei ricordi di chi l’ha attraversato da ragazzo e nei disagi quotidiani di chi ogni giorno deve fare quaranta chilometri in più. Forse il ponte non è crollato davvero: è stato solo inglobato nella grande tradizione italiana delle opere sospese. Una tradizione millenaria che parte dall’antica Roma e arriva fino a noi: panem, circenses e… cantieri eterni».