La scuola di formazione all’impegno sociale e politico “Paolo Borsellino” diretta da don Alberto Conti e la Caritas Abruzzo e Molise invitano a partecipare alla “Giornata della legalità, dell’impegno e della responsabilità” che si terrà a Castelguidone il prossimo 28 agosto.
Fulcro della giornata sarà la presentazione del libro a cura di Paolo Beccegato e Renato Marinaro dal titolo “Ci vuole un fiore – Dal degrado alla cura dell’ambiente“. La presentazione sarà affidata a don Francesco Soddu, direttore della Caritas italiana. La giornata di studi e approfondimento continuerà alle 16,30 con l’intervento di Giuseppe Antoci, presidente del parco dei Nebrodi fino al 2018, sul tema “La mafia dei pascoli“.
Alla vigilia di questa giornata di studi, abbiamo sentito l’organizzatore e direttore della Caritas diocesana di Trivento, don Alberto Conti, che ha gentilmente risposto alle nostre domande.
Don Alberto, la Caritas sempre in prima linea, da anni, sui temi dello spopolamento e della difesa del territorio montano.
«Io non sono un sociologo, né un economista, né un politico. Sono un prete chiamato, come tutti i cristiani, a leggere la storia che vive ogni giorno, o come amava ripetere il papa Giovanni XXIII, a “leggere i segni dei tempi” e tutto questo alla luce della Parola di Dio e della Carta Costituzionale, perché sono anche cittadino di questo paese. Compito della Caritas è anche quello di riaffermare con forza e dolcezza i valori del vangelo di Gesù Cristo, che sono i valori della carità autentica, che non deve essere confusa con l’elemosina, ma una carità che si coniuga con la giustizia, la legalità, con la solidarietà, con i diritti, ad iniziare dal primo diritto fondamentale: quello della vita e di una vita dignitosa».
Il diritto ad una vita dignitosa che in Alto Molise cozza con la rarefazione dei servizi, da quelli sanitari a quelli legati alla circolazione stradale, che alimenta lo spopolamento.
«Io vivo in un paesino della diocesi di Trivento, ma nella parte abruzzese. Il suo nome è Castelguidone. E un paese che da 900 abitanti di alcuni anni fa oggi conta in paese 160 e in campagna una 80 di persone. Una alla volta, giorno dopo giorno, le luci delle case dei nostri paesi si spengono. Quando, nei nostri paesi, si spegne la luce significa che in quella casa non abiterà più nessuno. Questa è la storia delle zone interne, che si stanno spopolando dal momento della grande ondata migratoria iniziata, e mai interrotta, subito dopo la seconda guerra mondiale che ha spinto altrove energie giovani, intellettuali, impoverendo così un territorio che era ricco di vita e di attività. La popolazione invecchia anno dopo anno con un ritmo accelerato, che provoca inquietudine e solitudine».
Spopolamento continuo e nuove povertà. Siamo davvero destinati a spegnere tutte le luci?
«Quando nel 1990 fui chiamato a dirigere la Caritas diocesana di Trivento, la prima cosa che feci fu di dare al Ce.Ri.S di Roma il compito ricercare le vecchie e nuove povertà. Il territorio della diocesi che si configura come “zona depressa”, sia economicamente che socialmente era a rischio desertificazione: la popolazione era passata dai 111.202 abitanti del 1961 ai 49.380 del 1991 con una popolazione di anziani pari al 24, 5% rispetto al 14,8% dell’Italia, tanto che i ricercatori scrissero che “se non ci fosse stata un’inversione di tendenza, entro il 2040, molti dei nostri paesi sarebbero scomparsi”. La nostra denuncia, fatta in maniera scientifica, provocò non tanto clamore, anzi piuttosto indifferenza e anche qualche accusa di fare “terrorismo psicologico”».
Sono passati ventotto anni e la profezia sembra essere sul punto di avverarsi. Non c’è davvero nessuna via d’uscita?
«Lo spopolamento prosegue, i lupi sono tornati a vagare sulle montagne e i cinghiali che nel 1992 erano quasi assenti sono oggi centinaia e al loro passaggio distruggono tutto. Non posso dimenticare le parole che, con trepidazione, un vecchio contadino mi disse quando finimmo di trapiantare dei vecchi ulivi, davanti alla nuova chiesa costruita in campagna: “Ora dobbiamo aspettare che la pianta si riannamori della terra”. Non trovo parola più pregnante di questa: tornare ad innamorasi della madre terra. Io sono convinto che “oltre” lo spopolamento c’è prima di tutto – ma non basta – questo ritornare ad amare, custodire e coltivare la terra, da noi abbandonata per “abbandonarci” allo sviluppo industriale».
Quindi l’industrializzazione degli anni passati, che pure offre lavoro a tante famiglie, si è rivelato come un boomerang per le zone interne?
«Per anni abbiamo educato i nostri giovani a cercare il posto fisso e questo ha contribuito a far morire la cultura del lavoro intesa come iniziativa, spirito imprenditoriale per sviluppare nuovi beni e servizi per lanciarli sul mercato, la cultura del lavoro come impegno, responsabilità, fatica “sudore della fronte” e infine come soddisfazione. Ora più che mai è necessario educare al lavoro, stanno scomparendo mestieri che sono necessari alla vita comunitaria».
Insomma, il consiglio della Caritas è tornare alla terra, creando lavoro sul posto. Solo così si potrà andare “oltre lo spololamento”?
«“Oltre lo spopolamento” c’è da mettere al centro della politica e della economia, l’uomo. Quando si perde il senso dell’umano si perde anche l’uguaglianza dei diritti. Per cui ciò che conta è il numero: in quanti siete in quel paese? Quante persone abitano l’interno del Molise? Pochi! E allora si chiudono le scuole, gli uffici, gli ospedali. Se è l’economia che conta allora si ricostruisce, e ne sono contento, il ponte di Genova in un anno mentre il ponte sul Sente che collega l’alto Vastese con l’alto Molise non si sa se sarà riaperto».
La classe politica, gli amministratori pubblici, cosa hanno fatto, cosa fanno contro lo spopolamento?
«La politica, che dovrebbe assicurare lungimiranza, trova in queste nostre terre la sua smentita più clamorosa. È una politica, indifferente, cieca, sorda, “indegna di questo nome”, come ha detto papa Francesco. È una politica che ha impoverito i nostri piccoli paesi e reso più fragili le nostre comunità, che offende, scoraggia, umilia la nostra gente per le tante promesse mai realizzate. Una politica che quando c’erano risorse da investire le ha dissipate, quando poteva non ha fatto nulla. E che adesso è incapace di attivare energie sociali nuove, proprio perché nei decenni passati le ha scoraggiate o ha tentato di addomesticarle ai propri disegni di potere».
Parole dure come macigni contro la classe politica. Ma alla resa dei conti cosa resta, solo rassegnazione?
«Oggi in molti prevale il sentimento dello scoramento, della rassegnazione che porta a considerare inevitabile e inarrestabile lo spopolamento dei nostri borghi. La soglia del’emergenza è stata superata ed è molto difficile contrastarla. Ma noi sappiamo che la rassegnazione non è una parola che possa trovare posto nel vocabolario di un cristiano, ma anche in quello del cittadino che crede nei doveri e diritti sanciti dalla Carta Costituzionale. Siamo obbligati a sperare, per chi ha deciso di restare».
Sì reverendo, ma in concreto cosa fare?
«Dobbiamo riaprire le questioni della sanità pubblica e della presenza di presidi ospedalieri adeguati, che siano messi nella condizione di garantire il diritto alla salute anche a chi vive in montagna. Bisogna riparare, con urgenza, le disastrate strade di montagna, letteralmente impercorribili per grandissimi tratti. Le famiglie e le attività dei pochi imprenditori rimasti andrebbero aiutate con una legge che preveda una fiscalità di vantaggio. Abbiamo bisogno di lavoro per fermare l’emigrazione dei nostri giovani e per far tornare a vivere la gente nei nostri paesi. Un lavoro che abbia rispetto dell’ambiente, dei nostri meravigliosi monti, boschi, fiumi».
E la Chiesa? Quale ruolo deve avere in questa “battaglia” contro lo spopolamento?
«Noi come Chiesa continueremo ad “alzare il nostro grido” perché questo grido e le tante sofferenze che vuole rappresentare arrivino a coloro che hanno la responsabilità di ascoltarlo e li induca a intervenire, a trovare una risposta risolutiva, e onesta. E questo non domani, ma subito perché domani sarà tardi e le luci si spegneranno per sempre».
La Caritas sta concretamente facendo qualcosa, già da tempo.
«Come Caritas abbiamo messo in cantiere e realizzato tanti progetti volti a lenire il bisogno, ad aiutare le persone in difficoltà, ma anche a dare loro strumenti, cultura, mezzi per crearsi da soli le condizioni per non ricadere nella povertà e nell’apatia. Abbiano agito sulle piccole dimensioni, consapevoli che una strategia vincente può attuarsi anche con la forza dell’esempio, con la moltiplicazione delle azioni locali. I nostri piccoli segni per riaccendere le luci delle case dei nostri paesi possono apparire come azioni di una benefica “guerriglia” sociale. È poco? Forse, non possiamo essere noi i giudici delle nostre iniziative. Ma la storia ci ha insegnato che qualche volta anche la “guerriglia” è riuscita a vincere le grandi guerre».
Francesco Bottone