Gli abruzzesi fanno fatica ad avere piena consapevolezza del territorio in cui vivono. Si può sciare guardando le barche in mare aperto. Oppure passeggiare sulla spiaggia ed immaginare, com’è realtà, i camosci al pascolo sui ripidi pendii innevati dei nostri Appennini.
In poche decine di chilometri si sale da 0 a 3000 metri: delle sponde dell’Adriatico ad habitat in tutto assimilabili ai contesti alpini. Sulle nostre montagne cresce il genepì, la stella alpina, l’abete bianco e la betulla e vi nidificano o sostano fringuelli alpini o il piviere tortolino, che predilige normalmente l’ambiente della tundra artica o alpina. I caprioli si vedono ormai alle periferie delle città e qualche giovane cervo si è spinto sino al mare.
Tra le spiagge e le montagne insistono floride campagne che fino a cinquant’anni fa producevano reddito e sostentamento per tante famiglie e non solo, e che oggi, invece, sono macchie incolte ed abbandonate, alternate a campi di agricoltura d’impresa, che ansima fra insediamenti industriali fallimentari ed improbabili agglomerati commerciali.
Pessimo lo stato dei fiumi e delle zone umide. I primi cementificati, asfissiati, le seconde sopravvissute solo grazie all’intervento di associazioni ambientaliste.
Tante aree protette dilagano e spesso sono soltanto carrozzoni per impieghi solidi o precari di nominati da strutture o da partiti.
Nel mezzo il nulla ed i cacciatori.
Il nulla è il frutto dell’ignoranza e dell’inattività. I secondi si alternano fra opportunismo, menefreghismo ed illegalità. Pochi, pochissimi, ad un attento screening di cultura venatoria e di cultura della legalità si salverebbero da un giudizio oggettivo e non fazioso.
Un solo fatto può dirsi inequivoco: le potenzialità inespresse del nostro territorio.
I cacciatori si lamentano del fatto che “le aree migliori” sarebbero state occupate dai parchi. Certo, però, nessun dirigente di associazione venatoria (e ad oggi sono quasi sempre gli stessi) ha mai pensato di ricorrere in sede giurisdizionale attorno ad improvvide perimetrazioni ministeriali ed ideologiche. Così come mai è stata arginata una proliferazione di aree protette, spesso poco felice.
Ma un tempo nemmeno tanto lontano le “aree migliori” erano anche quelle alla immediata periferia delle città, dove oggi ci sono svincoli, insediamenti industriali o campi da agricoltura intensiva, del tutto infecondi per la selvaggina.
Durante le mie non molte “licenze” di caccia ho visto scomparire con svincoli e capannoni tantissimo ottimo territorio. Senza che alcun cacciatore muovesse un dito o quantomeno s’indignasse.
Siamo, però, ancora al male minore, giacché tolti i parchi e le riserve, che per la mano predatrice di troppi insaziabili possessori di fucili erano diventati dei deserti faunistici (ci sarà un motivo per cui oggi una parte della “cinofilia”, nonostante abbia zone a ciò dedicate, pretenda di “allenare” i propri cani nelle aree protette … forse magari il divieto assoluto di caccia lì vigente qualche merito lo avrà avuto?) rimane ancora tanto territorio, abbandonato dalle attività economiche dell’uomo ed oggi ricettacolo di cinghiali (già, perché nessuno si interroga sul rapporto tra aumento delle superfici degli incolti, o tra l’abbandono delle coltivazioni in montagna, e la proliferazione di cinghiali a ridosso della costa …) che invece potrebbe tornare ad essere rifugio ed habitat per una selvaggina vera e di qualità.
Basta solo “gestire”. Con poco denaro, in proporzione a quello che viene speso per i “lanci” di selvaggina, è facile ottenere arature, sfalci, coltivazioni “a perdere”, o la costruzione e la cura di pozze d’acqua o pasturatori.
La selvaggina, del resto, ha bisogno di poche basilari attenzioni: alimentazione, acqua e zone rifugio. Si pensi al valore delle siepi di delimitazione fra i campi, ormai scomparse e soppiantate dalla pulizia chimica con diserbanti … Ovvio che i predatori cosiddetti “nocivi” posson fare man bassa di gallinacci e conigli moribondi, se questi non han da mangiare, da bere e, soprattutto, da ripararsi.
Si aggiunga anche, alla ricetta, un prelievo “misurato” e non una predazione all’ultima penna/pelo o un bracconaggio senza limiti (assurdo, come quello che si fa di notte agli animali da poco reimmessi). Et voilà, il gioco è fatto: così si può facilmente cacciare di più e meglio …
Del resto in Atc o Aziende del “nord” non si fa nulla di diverso, non si usa mica l’uranio o s’invocano divinità sconosciute? Si cura l’habitat, per la sopravvivenza e la crescita della selvaggina.
Guardacaso si rischia anche di aiutare o sovvenzionare qualche giovane di buona volontà a recuperare le vecchie e solide (anche se faticose) economie agro-pastorali.
Non occorrono torme di scienziati, o tecnici faunistici per fare ed ottenere questo, ma solo qualche buon agronomo che magari si consulti al telefono con qualcuno esperto di volta in volta di alcune specie di fauna selvatica, che poi, spesso condividono anche le medesime esigenze spazio-alimentari.
Per giunta, il “tornare a coltivare in maniera tradizionale” servirebbe, allo stesso modo, per favorire la sosta della selvaggina migratrice e, riducendo gli incolti ed aumentando la diversificazione delle colture (coltivazioni dissuasive) si arginerebbe persino il problema “cinghiale”. Salvo volontà contraria dei tanti appassionati alla caccia collettiva di questa specie, che a questo punto devono uscire allo scoperto: molti danni insistono dove il prelievo stagionale è più intenso, è inutile nasconderlo.
Dunque non è vero che la riduzione numerica porta benefici. Del resto gli studi di biologia si preoccupano di densità e di struttura di popolazione, non di “capi abbattuti” come se fossero piattelli, tutti uguali. Allo stesso modo, nel cuore di molte aree protette anche abruzzesi, dove davvero non si caccia da decine di anni, non c’è nessun “allarme rosso” per il cinghiale: Pescasseroli non è assediata dai cinghiali. E nemmeno in Ungheria, dove si dice proverrebbero i nostri dannosi e prolifici esemplari. Difatti, lì in Ungheria, davvero i cinghiali raggiungono dimensioni impressionanti. E sempre lì la principale economia è quella agricola. Però pare che nessun ungherese si ria recato in Piazza San Pietro per chiedere un’intercessione dal flagello degli ignari suidi. Sarà forse che gli ungheresi, come in tutti gli altri paesi mitteleuropei, sanno per caso gestire bene la caccia?
Dicevo che gli appassionati di caccia collettiva al cinghiale dovrebbero un po’ spiegarsi bene sui propri intenti. Perché se da un lato temono che interventi gestionali possano limitare il loro carniere annuo (che mi auguro non debba soltanto servire a “risarcire” le spese del veterinario, il cibo per i cani o il gasolio dei “capi” …), dagli stessi ambienti mi viene la lamentela per cui dopo i primi 15-20 animali con gli altri non sanno più che farsene. Peraltro il tutto con carni che, senza un’apposita filiera, devono essere vendute soltanto “in nero”, cioè, detta alla buona, di contrabbando.
Interpreto questa aporìa come una “voglia di caccia”. Ma la voglia di caccia la si può appagare anche tornando a cacciare selvaggina ormai quasi scomparsa: dopo quanti giorni dall’apertura specifica non si vedono più in giro fagiani, lepri o starne? Oppure aprendola a specie che oggi sono solo bracconate … E’ il caso dei cervi e dei caprioli. Non saprei se i cacciatori abruzzesi sono fessi come quei pochi in Italia (più che altro residenti dove gli ungulati diversi dai cinghiali ancora non si sono riespansi), che ancora non pensano che l’apertura della caccia ai cervidi possa rappresentare un’opportunità per uscire a provare le emozioni della caccia per quasi tutto l’anno, o sono furbi come pochi, mentre nel Lazio, nelle Marche, in Umbria, in Toscana, nel Veneto, in Lombardia, in Liguria, in Emilia e Romagna, per non parlare di tutto l’arco alpino persino di qualche regione “del Sud”, i cacciatori son tutti dei deficienti e mentecatti.
E che dire del patrimonio economico e delle potenzialità di turismo venatorio che ne potrebbero venire?
Credo sia difficile negare al giovane disoccupato cacciatore delle nostre montagne che il cervo coronato che per divertimento ha bracconato la sera prima con gli amici della squadra poteva apportare sul territorio almeno una decina di migliaia di euro ad un qualsiasi cacciatore pagante e non residente, che oltre al prezzo dell’animale, alla carne acquistata o lasciata, avrebbe anche portato con sé la famiglia al B&B o all’agriturismo, e al ristorante e al negozio di prodotti tipici, o al mercatino del merletto che la fidanzata sferruzza per sbarcare il lunario e pagare il pediatra. Magari non lo sa, ma togliendo la genetica di ottimi portatori di trofei ha anche demolito per sempre una grossa potenzialità. O ha abbattuto, ignaro, un record da medaglia, che avrebbe portato lustro e decoro faunistico al territorio. Forse non sa nemmeno che una buona caccia ai cervidi ha bisogno di operatori, di centri di sosta, di veterinari, di guardiacaccia, di accompagnatori e che da disoccupato potrebbe vedere trasformata la caccia da passatempo in impiego!
Ah, ho dimenticato gli anatidi. Già, perché forse pochi cacciatori sanno che la ricostituzione di zone umide è persino finanziata dall’Unione Europea. O, più semplicemente, gli Atc possono concordare che il piano di ripristino di cave di ghiaia e materiali inerti possa avvenire mantenendo il sito “allagato” con la ricostituzione di vegetazione ad hoc. Ma anche questa è “fantacaccia” … o no?
Giacomo Nicolucci
Presidente Eps Abruzzo
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