Tredici milioni di euro “a spasso” nei boschi dell’Alto Molise. L’immagine è forte, affatto esagerata, ma soprattutto reale ed è emersa, grazie alla concretezza dei numeri, tra l’altro probabilmente sottostimati, nell’ambito del convegno organizzato dal Gal Alto Molise, che si è tenuto presso palazzo San Francesco di Agnone nel pomeriggio di martedì. Focus della giornata di studi l’attivazione di una filiera di carni selvatiche, derivanti dal prelievo di selvaggina cacciata.
Trasformare un problema, la proliferazione degli ungulati, in particolare i cinghiali, in una risorsa in grado di creare economia sul territorio dell’Alto Molise. Di questo si è parlato nell’ambito del convegno organizzato dal Gal Alto Molise, rappresentato dalla presidente Serena Di Nucci e dal direttore Mario Di Lorenzo.
Primo a prendere la parola, per i saluti istituzionali, l’assessore all’agricoltura del Comune di Agnone, Raffaele Masciotra. «Quella che ci viene prospettata come una risorsa rinnovabile di cibo di alta qualità, al momento, qui in Alto Molise e nel Molise più in generale, è ancora un problema. – ha esordito l’assessore, critico con la Regione Molise, anche in qualità di operatore del comparto agricolo – Stiamo ancora molto indietro, ad esempio, con la messa a regime del controllo dei cinghiali, al di fuori, dunque, dei periodi e dei vincoli fissati dalle normative venatorie. Bisogna fare meglio e di più, per dare risposta ai tanti agricoltori che subiscono pesanti anni, ogni anno, dalla fauna selvatica, in particolare dai cinghiali».
E il senso del progetto messo dal Gal Alto Molise va proprio in quella direzione: abbassare la consistenza numerica dei cinghiali, mettendo poi le carni in filiera in modo da creare occupazione e reddito. «Quello che proponiamo è un cambio di approccio al problema cinghiali. – ha spiegato il direttore del Gal, Mario Di Lorenzo – Non considerare la presenza di ungulati solo come problema, appunto, ma prendere contezza che questa può essere una straordinaria opportunità di sviluppo per tutto il territorio». Il direttore del Gal si è poi soffermato sulle strategie messe in campo per dare concretezza al progetto in essere.
«Abbiamo gestito e investito risorse per circa centotrentamila euro, in poco più di un anno di lavoro e di incontri con gli operatori e i portatori di interesse. – ha spiegato nel dettaglio – Fondi impiegati per realizzare recinzioni elettrificate a protezione delle colture agricole, per l’apertura del primo e al momento unico centro di sosta e raccolta della selvaggina e per tentare di approntare una filiera di carni selvatiche da selvaggina cacciata. Si è tentato di aprire il centro di sosta anche ad Agnone, utilizzando gli spazi del mattatoio comunale, ma qualcosa è andato storto, forse è mancata anche la volontà politica di procedere in tal senso. Un altro tentativo è stato fatto a Poggio Sannita, con risultati inconcludenti anche in quel Comune. Poi, grazie alla sensibilità e alla concretezza dimostrate dall’amministrazione comunale di Capracotta, abbiamo contribuito all’apertura del primo ed unico centro di raccolta in Alto Molise, a mille e quattrocento metri di altitudine, gestito egregiamente dall’imprenditore Teodorico Cenci».
Fatti concreti, dunque, perché Cenci ha riferito, nel corso del suo breve intervento, di ricevere, al momento, qualcosa come centoquaranta capi di cinghiali ogni settimana. Carni di altissima qualità, senza necessità di allevamenti da parte dell’uomo, provenienti da animali che nascono e vivono liberi, cibandosi naturalmente sul territorio. Il punto dolente, tuttavia, è che quei capi di selvaggina cacciata non restano in Molise, ma finiscono sul mercato delle filiere selvatiche di altre regioni.
La quasi totalità, infatti, viene trasferita dallo stesso Cenci in Toscana e in Emilia Romagna, dove in ogni ristorante o agriturismo si può gustare un piatto a base di selvaggina cacciata. Un paradosso e uno spreco da superare, secondo Cenci, un passo alla volta, cominciando, ad esempio, con l’attivazione di un centro di trasformazione, banalmente un salumificio che trasformi quelle carni del bosco in succulenti insaccati.
Il mercato c’è e presenta interessanti potenzialità, come è emerso, dati alla mano, dalla puntuale relazione del tecnico faunistico Aldo Di Brita, docente presso il Dipartimento di Agricoltura, Ambiente e Alimenti dell’Università del Molise. «L’Alto Molise ha tutte le potenzialità e le professionalità per realizzare e mettere su una filiera di carni selvatiche. – ha spiegato nel dettaglio il tecnico faunistico – La stima delle popolazioni di cinghiali, attualmente, è di circa venti animali ogni cento ettari di territorio. Praticamente una risorsa inestimabile e inesauribile, perché naturalmente rinnovabile.
Parliamo di numeri tra gli otto e i dodicimila cinghiali presenti sul territorio. Ipotizzando di metterli in filiera, ovviamente controllata con la collaborazione non solo dell’Università, ma soprattutto dell’istituto zooprofilattico e del servizio veterinario regionale per quanto attiene il discorso sanitario, si avrebbe un potenziale volume di duecentotrentamila chilogrammi di carni selvatiche che significa 665 mila porzioni di tagli nobili che potrebbero finire sulle tavole dei ristoranti di zona. Un volume potenziale di denaro quantificato in almeno dieci milioni di euro, ai quali andrebbero aggiunti quelli derivanti dalle parti residuali da utilizzare magari per la produzione di salumi: altri tre milioni di euro».
A conti fatti si raggiunge la cifra astronomica di tredici milioni di euro che potrebbe essere generata dalla filiera selvatica. Tredici milioni che al momento, invece, pascolano tra i boschi e i campi dell’Alto Molise. Non mere ipotesi accademiche, ma conti spiccioli, sulla solida base dei numeri a disposizione. Si tratta solo, appunto, di implementare e far partire la filiera di carne selvatica. Servono quindi cacciatori disponibili ad effettuare i prelievi venatori, macellai in grado di ricavare tagli nobili dalle carni, salumieri che possano trasformarle e chef o semplici cuochi che riescano a valorizzare un prodotto a chilometro zero, dalle eccezionali qualità organolettiche e nutrizionali e senza antibiotici preventivi o alimentazione forzata.
Serve poi, come ha sottolineato l’assessore e vicepresidente della Regione Molise, Andrea Di Lucente, creare una cultura delle carni selvatiche, anche e soprattutto dal punto di vista gastronomico. «Bisogna creare un mercato per queste carni e questo lo si può fare creando, appunto, una cultura gastronomica attorno alla selvaggina. – ha sottolineato l’assessore regionale – L’apertura di un centro di raccolta a Capracotta va sicuramente in questa direzione, ma bisogna fare meglio e di più. Nel prossimo bando del Gal, ad esempio, si potrebbe inserire l’apertura di un salumificio di prodotti derivati dalla selvaggina cacciata. Il Molise non ha nulla da invidiare alla Toscana o all’Umbria in questo settore venatorio e gastronomico, ma qui da noi paghiamo un ritardo culturale che va assolutamente colmato. Mi pare, tuttavia, che siamo sulla buona strada. La collaborazione con i cacciatori è fondamentale, ma ricordiamo che si tratta di operatori volontari e che dunque vanno messi nella condizione di poter fare, senza troppi vincoli o costi».
Il prossimo step è la creazione di un marchio di origine delle carni selvatiche dell’Alto Molise e dal Gal assicurano che sono già al lavoro per centrare questo obiettivo. Le potenzialità ci sono tutte, è «una sfida» come ha sottolineato il tecnico faunistico Di Brita, che va raccolta e portata avanti tra imprenditori, istituzioni, università e istituto zooprofilattico.
Francesco Bottone