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  • “Quelle salsicce ai gol di Mazzola e i 120 milioni pagati per passare al Verona”

    Nicola D’Ottavio (nella foto a lato con Bruno Giordano), oltre 200 gol tra i professionisti, racconta retroscena e aneddoti della sua carriera calcistica. In una intervista rilasciata al collega Rocco Coletti de Il Centro, quotidiano abruzzese, il bomber agnonese, oggi osservatore del Chievo Verona, tra le altre cose, ammette: “A 12 anni giocavo in Terza categoria con gli adulti anche se non potevo”.

    I baffi sono (ancora) quelli di un tempo in cui faceva gol con la puntualità di un orologio svizzero. Ne ha contati circa 200 in carriera Nicola D’Ottavio, 55 anni, oltre venti dei quali trascorsi a dare calci a un pallone e a gonfiare la rete. Agnonese di origine, pescarese di adozione. Oggi è uno degli osservatori del Chievo, fino a qualche anno fa è stato direttore sportivo di varie squadre di Lega Pro, dimostrando di capirci come pochi. Ma tutti lo ricordano come il bomber. In serie A ha giocato poco, a Verona e ad Avellino, e non ha difficoltà ad ammettere che è stata (anche) colpa sua. Una vita inseguendo il gol.

    D’Ottavio, quando ha iniziato a giocare a calcio?

    «Avevo 12 anni, in Terza categoria molisana, nell’Aquilonia Agnone».

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    A 12 anni?

    «Sì, non avrei potuto secondo regolamento, lo so. Ma c’è chi camuffò il documento: la data di nascita era 1956 anziché 1959… A distanza di anni si può dire… Giocavo con i grandi e facevo gol e così i dirigenti decisero di gettarmi nella mischia».

    Poi?

    «A 15 anni passai in Prima categoria, nell’Olimpia, l’altra squadra di Agnone».

    Sempre centravanti!

    «Ovviamente».

    E il salto di qualità?

    «A 16 anni stavo disputando il torneo dei bar, a Lanciano. Mi vide Tribuiani e mi portò a Giulianova, in serie C. Il tutto grazie anche al lavoro svolto dal compianto dirigente dell’Agnonese, Nicola Bomba a cui devo tanto».

    Primo ritiro precampionato a Fara San Martino, con la maglia giallorossa.

    «Ricordo ancora oggi i miei genitori che mi accompagnano. Mi lasciano e scoppiano a piangere. Ho ancora l’immagine negli occhi della macchina dei miei che va via, loro che mi salutano con la mano piangendo… Era la prima volta che lasciavo casa».

    A Giulianova subito un tricolore giovanile.

    «Vincemmo lo scudetto Allievi. E l’anno successivo, 1976-77, feci l’esordio in C in un Giulianova-Pisa 1-0, tiro al volo di sinistro e subito gol al Fadini».

    Nel 1978 il grande salto.

    «Mi aveva seguito Valcareggi, sì l’ex ct della Nazionale. Fu lui a portarmi a Verona. Credo per circa 120 milioni di vecchie lire. Ma io arrivai e lui andò via. Venne Mascalaito, ma il campionato andò male e l’Hellas retrocesse».

    L’approccio con la serie A?

    «In coppa Italia battemmo il Torino 4-2 e io segnai due gol. Un avvio fantastico…».

    E che cosa non funzionò?

    «La pubalgia mi ha distrutto proprio nel momento più delicato della carriera».

    Com’era quella serie A?

    «Era dura, ma anche oggi lo è. Forse, in passato, c’era più selezione per arrivarci».

    Differenze con quella attuale?

    «C’era meno tattica e l’attaccante riusciva a dare sfogo al suo istinto più facilmente».

    Il rapporto con i difensori?

    «Mi facevo rispettare. Anzi, non mi facevo menare. E se proprio dovevo prendere le botte, preferivo riceverle in area così mi davano il rigore e li fregavo».

    Con quale difensore ha litigato?

    «Stefano Di Chiara, lui era al Genoa e io al Verona se non sbaglio. Due giornate a testa».

    Da Verona a Brescia.

    «Io a Brescia, in B, in cambio di Penzo a Verona. Ma a novembre ero ancora in serie A, ad Avellino. Arrivai come il salvatore della patria, feci fare gol a Juary contro la Roma. Ma non andò benissimo».

    Addio serie A.

    «Andai in B a Campobasso e quella fu la svolta della mia carriera. C’era Pasinato allenatore, giocavamo con cinque-sei difensori e il sottoscritto unica punta. Correvo come un matto. E quando arrivavo in area ero poco lucido. E’ in quel periodo che decisi di correre di meno per poter segnare di più. E devo dire che, da lì in poi, la svolta è stata palpabile».

    Chiunque voleva vincere il campionato chiamava Nicola D’Ottavio che era un assegno in bianco in termini di gol.

    «Più o meno così. Cinque promozioni in carriera. A Taranto, a Barletta, due a Benevento e una a Castel di Sangro».

    Il giocatore più forte con cui ha giocato?

    «Mi viene in mente Beniamino Vignola. Anzi no, Emiliano Mascetti, bravissimo. E poi, scusa, Boninsegna. Lui è stato il migliore, uno dei miei idoli».

    Lei è interista.

    «Fino al midollo osseo. Una passione che mi ha tramandato mio padre. Ogni volta che segnava Mazzola mio padre tirava fuori le salsicce, era una festa».

    Ha giocato contro i nerazzurri.

    «Certo, con la maglia del Verona. Perdemmo 4-0 a San Siro. Però, che brividi entrare in quello stadio».

    Con i presidenti come è andata?

    «Parlavo poco con loro, mai avuto problemi».

    E con gli allenatori?

    «Penso di aver avuto problemi solo con il compianto Giancarlo Cadè, a Verona. Mi riprendeva sempre, forse anche a ragione. Non ci siamo mai presi».

    A Catania c’era Bruno Pace allenatore con lei.

    «Arrivai con un problema al piede. Dovetti stare fermo un mese e non riuscii a dargli una mano».

    La stagione più bella?

    «Quelle chiuse con la promozione, ovunque. Tutte belle».

    Con chi si è trovato meglio tra i partner d’attacco?

    «Non ho dubbi: Silvio Paolucci (l’ex attaccante di Tollo, oggi allenatore, ndr). Bastava uno sguardo per capirci».

    Rimpianti?

    «Nemmeno più di tanto. A 20 anni, da Agnone a Verona, credi di essere padrone del mondo. Peccati di gioventù ne ho fatti, ma poi mi sono gestito abbastanza bene».

    Il rapporto con la maglia azzurra?

    «Due partite con l’under 21, c’era Azeglio Vicini commissario tecnico».

    Oggi che cosa fa?

    «Lavoro con il Chievo, faccio l’osservatore».

    E coltiva un’altra passione.

    «Sì, quella del ping pong. Mi diverto con gli amici».

     

     

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