Proliferazione dei cinghiali, verso la cancellazione della braccata. La risoluzione approvata alla Camera, in Commissione Agricoltura, considera dannosa la forma di caccia più diffusa per il prelievo del cinghiale. La caccia con i segugi non solo non riesce ad arginare il numero di cinghiali, essendo dunque inefficace rispetto alla proliferazione della specie, ma risulta addirittura dannosa, peggiorativa del problema, perché «ha determinato negli anni una destrutturazione della piramide delle classi di età, agevolando la riproduzione degli esemplari più giovani». La lettura del testo della risoluzione sembra far intendere che sia proprio questa la volontà dei parlamentari. Cancellare la braccata con i segugi, considerata impattante, per sostituirla magari con altre forme di caccia più tecniche e meno impattanti come il selecontrollo. Potrebbe essere questa la direzione intrapresa con la risoluzione appena approvata.
Tra i firmatari anche la parlamentare molisana Laura Venittelli del Pd.
La Commissione Agricoltura della Camera nella seduta pomeridiana del 29 ottobre ha approvato unitariamente con un solo voto di astensione una risoluzione “ Sui danni causati all’agricoltura e alla zootecnia da alcune specie di fauna selvatica o inselvatichita con particolare riferimento alla proliferazione dei cinghiali”. L’iniziativa parte da una risoluzione presentata alcuni mesi fa da un gruppo di deputati (primo firmatario Susanna Cenni) poi integrato e modificato nel corso del dibattito con il contributo di tutte le forze politiche. Il Governo ha espresso parere favorevole.
Di seguito il testo della risoluzione.
La XIII Commissione,
premesso che: l’agricoltura rappresenta uno dei settori maggiormente incisivi sulla bilancia commerciale del Paese, una delle voci principali di export e di produzioni di eccellenza capace di essere, anche nella grave e perdurante crisi economica ed occupazionale, un comparto anticiclico di irrinunciabile valenza;
da anni le rilevanti criticità determinate dai danni causati all’agricoltura e alla zootecnia da alcune specie di fauna selvatica o inselvatichita, hanno assunto dimensioni allarmanti, con gravi ripercussioni che incidono inevitabilmente, oltre che sui bilanci economici delle aziende agricole (in particolare delle aziende di medie e piccole dimensioni che vedono compromesso gran parte del reddito ed interessando produzioni di grande qualità ed eccellenza come il settore vitivinicolo) e compromettendo in vaste aree l’equilibrata ed integrata coesistenza sostenibile tra attività umane e specie animali; la necessità di affrontare e risolvere il problema è stata, nel corso degli anni, sollecitata dalle associazioni agricole di categoria, dagli enti locali territoriali e dalla Conferenza delle regioni;
il fenomeno dei danni provocati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche continua ad avere i connotati di una vera e propria emergenza, che sollecita l’avvio urgente di iniziative da parte delle istituzioni pubbliche, volte a prevedere un sistema adeguato di efficaci misure preventive e di contrasto;
dal punto di vista giuridico la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato, così come disposto dalla legge n. 157 del 1992;
sempre la legge n. 157 del 1992 attribuisce alle regioni la competenza in materia di normativa, di programmazione e gestione dell’attività venatoria (nel rispetto dei princìpi generali della legislazione quadro nazionale e delle norme internazionali recepite), che hanno per lo più normato ed attivato in materia le amministrazioni provinciali e gli ATC determinando attività di prevenzione e di prelievo della fauna presente in eccesso;
tali attività sembrano non risultare sufficientemente efficaci e, secondo quando segnalato da numerose amministrazioni locali, pare essere divenuto più complesso ed in alcuni casi quasi inapplicabile, l’iter previsto dalla legge per giungere ai prelievi (province, regioni, ISPRA, ATC);
alla luce di queste difficoltà e per contrastare e prevenire tale fenomeno sono state effettuate numerose e diversificate iniziative parlamentari, che hanno interessato vari gruppi politici, sia nella XVI che nell’attuale legislatura. Sul tema sono state infatti presentati atti di sindacato ispettivo, risoluzioni, proposte di legge ed avviate approfondite indagini conoscitive;
secondo le stime le perdite economiche causate dalla fauna selvatica alle colture, la maggior parte delle quali riconducibili ai cinghiali, sono indicate, da alcune associazioni di categoria, in oltre 70 milioni di euro annui (in molti casi rimborsati solo parzialmente);
sussiste comunque una palese difficoltà a reperire dati ufficiali ed aggiornati sui danni provocati dalla fauna selvatica. A livello nazionale infatti non esiste ad oggi un «database» complessivo con dati qualitativi e quantitativi provocati dalla fauna selvatica. Possiedono «database» le regioni Toscana, Piemonte, Emilia Romagna ed Umbria;
nel mese di novembre 2010 la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha prodotto un documento relativo ad una indagine conoscitiva sui danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche relative al periodo (2005-2009). Da tale documento sono emerse, in sintesi, le seguenti indicazioni:
a) i danni causati dalla fauna selvatica sono ingenti e presenti in tutte le regioni, anche se sono differenziati in ragione del territorio, delle culture presenti e delle specie che li causano;
b) le specie animali che procurano danni sono in particolare: cinghiale, capriolo, daino, lepre, fagiano, storno, lupo, nutria;
c) le percentuali significative dei danni sono provocate dalle tre specie maggiormente immesse a scopo venatorio: cinghiale, lepre e fagiano;
d) i maggiori danni sono stati registrati alle coltivazioni, in particolar modo alle produzioni erbacee (oltre 40 milioni di euro) ed alle produzioni arboree (circa 16 milioni di euro);
e) i danni interessano anche la zootecnia ed i veicoli stradali a seguito di incidenti causati da animali selvatici;
la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha sollecitato in numerose occasioni il Governo a dare completa attuazione alle disposizioni contenute all’articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001), che dispone il trasferimento, da ripartire tra le regioni per la realizzazione di programmi di gestione faunistico-ambientale a decorrere dall’anno 2004, di una somma pari al 50 per cento dell’introito derivante dall’applicazione della tariffa sulle concessioni governative relative alle licenze di porto di fucile a uso caccia. Maggiori risorse, a giudizio della conferenza, sarebbero inoltre di aiuto anche agli osservatori faunistici regionali per svolgere l’attività di monitoraggio degli habitat e della fauna selvatica nonché per i prelievi e per le deroghe;
nella XVI legislatura la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha approvato un documento a conclusione dell’indagine conoscitiva sul «Fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche». Nella relazione viene evidenziata:
a) la necessità di un’analisi quantitativa e qualitativa del fenomeno attendibile basata su dati certi, realizzata da un ente terzo qualificato e con protocolli scientifici adatti ai censimenti;
b) una rivalutazione, anche temporanea, dei criteri di immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni che causa danni gravi alle popolazioni agricole;
c) la valorizzazione, da parte degli organismi pubblici competenti, di una interazione sinergica ed integrata con gli agricoltori ed i cacciatori, anche attraverso collaborazioni specifiche e progetti di filiera;
d) una puntuale individuazione delle aree da ritenersi vocate alla presenza faunistica e di quelle, invece, ove la presenza delle attività agro-silvo-pastorali impone la riduzione al minimo del numero di cinghiali, al fine di prevenire danni alle persone e cose, nonché alle attività che risultano essere quelle maggiormente colpite;
e) il concreto funzionamento delle aree contigue (articolo 32 della legge n. 394 del 1991) in modo che le stesse possano svolgere la loro funzione di «zona cuscinetto» tra l’area protetta ed il territorio in cui si esercita la caccia;
f) una maggiore attenzione alla prevenzione ed ai finanziamenti che questa comporta incoraggiando le amministrazioni locali competenti ad incentivare le aziende nella realizzazione di investimenti strutturali per la difesa dai danni;
appare quindi evidente che ogni strumento o azione efficace per contrastare adeguatamente tale fenomeno debba essere basato su una conoscenza capillare e certificata dei danni prodotti dalla fauna selvatica. La raccolta di questi dati necessita quindi di un protocollo rigoroso ed omogeneo. L’ISPRA (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, vigilato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare) sembrerebbe quindi rappresentare l’ente statale preposto di riferimento scientifico e di ricerca, per mettere a punto e coordinare, di concerto con i Ministeri competenti e gli enti locali di riferimento, un protocollo rigoroso, omogeneo ed efficace di raccolta dei dati per i danni causati dalla fauna selvatica; l’ISPRA è stato infatti istituito con la legge n. 133 del 2008 e svolge anche le funzioni, con le inerenti risorse finanziarie, strumentali e di personale, che erano di competenza dell’ex ISPRA (Istituto nazionale per la fauna selvatica normato dalla legge n. 157 del 1992); l’Istituto nazionale per la fauna selvatica, organo scientifico e tecnico di ricerca e consulenza per lo Stato, le regioni e le province, aveva il compito di censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica; di studiarne lo stato, l’evoluzione ed i rapporti con le altre componenti ambientali; di elaborare progetti di intervento ricostitutivo o migliorativo sia delle comunità animali sia degli ambienti al fine della riqualificazione faunistica del territorio nazionale; di effettuare e di coordinare l’attività di inanellamento a scopo scientifico sull’intero territorio italiano; di collaborare con gli organismi stranieri ed in particolare con quelli dei Paesi della Comunità economica europea aventi analoghi compiti e finalità; di collaborare con le università e gli altri organismi di ricerca nazionali; di controllare e valutare gli interventi faunistici operati dalle regioni e dalle province autonome; di esprimere i pareri tecnico-scientifici richiesti dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome;
nonostante i danni interessino tutto il territorio nazionale il fenomeno ha colpito e colpisce in particolare rilevanza alcune regioni, ed in particolare Toscana, Piemonte, Liguria;
la gravità di tale problematica ha spinto ad esempio la regione Toscana, nei giorni scorsi e per voce dell’assessore all’agricoltura Gianni Salvadori, a chiedere al Governo italiano di farsi promotore nei confronti dell’Unione europea per favorire l’introduzione dello storno fra le specie cacciabili, dal momento che «dopo il cinghiale e il capriolo, è la specie che causa più danni all’agricoltura toscana», e numerose amministrazioni provinciali a scrivere allo stesso Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali segnalando la gravità di danni prodotti da cinghiali e caprioli, come evidenziato da Anna Maria Betti, assessore all’agricoltura e caccia della provincia di Siena e coordinatore Upi Toscana: «Le norme e i regolamenti in materia di gestione della fauna selvatica – ha dichiarato – non sono più adeguati alla situazione attuale e non consentono di mantenere densità sostenibili e giusto equilibrio fra le specie, con l’ambiente circostante e con l’attività agricola»,
in particolare, in Italia l’approccio ai problemi faunistici legati alla proliferazione dei suidi, è condizionato pesantemente da una burocrazia farraginosa e dalla sottovalutazione della dimensione sociale di questo fenomeno, valutato come una faccenda che riguarda solo i singoli agricoltori o allevatori, di fatto lasciati soli a fronteggiare un fenomeno e che in alcune aree del Paese, ha assunto dimensioni preoccupanti;
in particolare la diffusione delle popolazioni di cinghiale interessa molte aree del nostro Paese, anche quelle che per loro natura non ne erano vocate, come i pascoli di alta montagna, provocando gravissimi danni alla rinnovazione delle malghe che date le basse temperature ed il ciclo vegetativo molto breve, si rimarginano con molta difficoltà;
in particolare la proliferazione dei suidi è effetto ed al contempo causa dell’abbandono delle aree agricole e montane da parte delle popolazioni che oltre alla «sofferenza» dovuta alla recente crisi economica, subiscono gravi perdite della produzione che mina ulteriormente la sussistenza degli agricoltori e delle loro famiglie;
in particolare, tale proliferazione risulta particolarmente impattiva a causa dell’irrazionale introduzione a scopo venatorio di esemplari provenienti dal centro Europa che hanno pressoché soppiantato o contaminato incrociandosi, le specie autoctone quali la Sus scrofa majori in Maremma ed il Sus scrofa meridionalis in Sardegna, che morfologicamente ed etologicamente risultavano essere perfettamente integrate e in equilibrio con l’ambiente;
in particolare, a differenza di quanto si sia erroneamente ritenuto fino ad oggi, l’ordinaria attività venatoria, così come viene organizzata e gestita in Italia, non rappresenta una forma di controllo delle popolazioni di cinghiale, tantomeno può rappresentarlo un’estensione del periodo di prelievo (deregulation dei calendari venatori) o la concessione del prelievo in aree altrimenti protette. Altresì, l’attività venatoria ha determinato negli anni una destrutturazione della piramide delle classi di età, agevolando la riproduzione degli esemplari più giovani, abbattendo i capi adulti con più di due anni di età;
in particolare, i metodi di contenimento non cruento, quali le recinzioni meccaniche permanenti e le recinzioni elettrificate (Allegato 1, Metodi di prevenzione diretta dei danni da cinghiale, «Linee guida per la gestione del Cinghiale», ISPRA) ed il trappolaggio per la successiva sterilizzazione farmacologica (Allegato 3, Sistemi di cattura del cinghiale), benché risolutive ed eticamente accettate, non trovano applicazione o perdono di efficacia a causa della mancanza di applicazione da parte degli enti territoriali preposti, di uno schema di piano per la programmazione degli interventi di controllo numerico del cinghiale nelle aree protette (Allegato 2, delle «Linee guida per la gestione del Cinghiale») e della presenza di coadiutori ai piani di controllo numerico del cinghiale, formati secondo lo schema dell’Allegato 4 delle «Linee guida per la gestione del Cinghiale» dell’ISPRA;
in particolare, oltre all’ISPRA, altri enti come l’ARSIA (Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione nel settore agricoloforestale) della Toscana, hanno individuato sistemi di contenimento non cruenti delle popolazioni di cinghiali, come riportato nella pubblicazione «I danni causati dal cinghiale e dagli altri ungulati alle colture agricole. Stima e prevenzione», del 1999. Questi metodi purtroppo hanno trovato scarsa applicazione a causa dell’assenza di una pianificazione a livello territoriale da parte degli enti competenti, e per il fatto che i conduttori dei fondi debbano sobbarcarsi gli ingenti oneri economici necessari alla realizzazione degli interventi;
occorre evitare che si sia costretti ad affrontare in modo autonomo l’emergenza, ricorrendo all’abbattimento di capi in modo disorganico e in aperta infrazione delle norme costituzionali a tutela della fauna selvatica;
la legge quadro sulla caccia n. 157 del 1992 e le singole leggi regionali ove emanate, istituiscono un fondo al fine di indennizzare i conduttori di aziende agricole che ne facciano richiesta documentata, con il consiglio regionale che ne regolamenta l’utilizzo. Tuttavia questo piano «no-fault» che dovrebbe rendere quasi scontato l’accoglimento delle domande di risarcimento, trova difficile o impossibile applicazione nelle aree interessate dai danneggiamenti, a causa di lungaggini burocratiche, dell’estrema eterogeneità delle procedure per l’istruzione delle pratiche risarcitorie sul territorio nazionale, nella mancanza di un’assunzione di responsabilità da parte delle autorità degli enti preposti, e nella difficoltà di ottenere dei sopralluoghi condotti da personale qualificato, creando spesso contenziosi a cui corrispondono ulteriori oneri da parte degli agricoltori;
il mancato rilascio delle certificazioni del danno subito dalle aziende agricole, comporta la mancata registrazione del debito effettivo da parte della regione, ponendola nell’impossibilità di ottemperare al decreto-legge n. 35 dell’8 aprile 2013;
a seguito di inefficienze amministrative e difficoltà in sede applicativa, il diritto soggettivo al risarcimento che deve essere integrale, viene impugnato dal danneggiato presso il giudice ordinario per contestare l’applicazione dei criteri di liquidazione da parte delle PA, con tempi di attesa delle sentenze tali da ledere il diritto del soggetto privato, e che ingolfano ulteriormente il sistema giudiziario;
secondo le stime delle associazioni di categoria, la percentuale di danneggiamento da parte dei suidi, ha superato la soglia di tolleranza fissata al 4-5 per cento di perdita di prodotto, ingenerando un allarme sociale. Tra le regioni più colpite abbiamo il Lazio, con circa tre milioni di euro di danni nel solo 2013, soprattutto nei comprensori di Amatrice, Vallepietra, Bracciano, nel reatino e nel viterbese, la Valle d’Aosta, il Piemonte, le Marche, la Toscana, dove rappresentano il 66 per cento dei danni, nel Molise, in provincia di Campobasso, nell’oasi di monte Vairano e in altre regioni
impegna il Governo
1. ad intraprendere urgentemente, secondo il principio che la tutela ambientale debba comunque conciliarsi con l’esercizio dell’attività d’impresa, tutte le iniziative tecniche, organizzative e normative, sia in sede nazionale che in sede comunitaria, per contrastare e prevenire con efficacia il problema dei danni alle colture causati dalla fauna selvatica e in particolare i danni dovuti alla proliferazione dei suidi prevedendo una maggiore sinergia con le regioni e le province autonome e con l’ISPRA;
2. ad istituire, mediante il concerto tra i Ministeri competenti, ISPRA, le regioni e le province autonome, un osservatorio permanente in grado di censire con puntualità, certezza e per mezzo di comprovati parametri tecnici e scientifici, i danni provocati dalla fauna selvatica su tutto il territorio nazionale e ad avviare, nell’ambito delle proprie competenze e di intesa con le regioni e le province autonome, un monitoraggio nazionale sull’applicazione dell’articolo 10 della legge n. 157 del 1992, e in particolare del comma 8, lettera f), al fine di valutare oggettivamente se siano state messe in atto tutte le misure previste dalla legislazione nazionale in materia di risarcimento dei danni da fauna selvatica agli agricoltori e di assicurarsi che si raggiungano dei risultati omogenei sul territorio nazionale così da garantire, al contempo, la tutela della fauna selvatica e il diritto degli agricoltori di essere risarciti in tempi rapidi e certi;
3. a verificare l’attuazione e la dotazione del fondo presso il Ministero dell’economia e delle finanze ai sensi dell’articolo 24 della legge n. 157 del 1992 e a constatare se siano stati istituiti fondi regionali per il risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall’attività venatoria, come previsto dall’articolo 26, cagionati delle specie animali indicate negli articoli 2 e 18 e a reperire risorse adeguate per risarcire gli agricoltori dai danni causati dalla fauna selvatica a partire dalla completa attuazione alle disposizioni contenute all’articolo 66, comma 14, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, citata in premessa;
4. ad assumere ogni possibile iniziativa normativa per scorporare il risarcimento o l’indennizzo per i danni di alcune specie selvatiche o inselvatichite e in particolare dei suidi, dalla quota massima (nell’arco di tre esercizi fiscali) prevista per gli aiuti delle aziende agricole rientranti nel regolamento de minimis;
5. a valutare la possibilità di promuovere bandi per la realizzazione e la manutenzione di strumenti di prevenzione a difesa dei comprensori o di singole proprietà, con le caratteristiche stabilite dall’ISPRA o dagli enti di ricerca preposti e l’applicazione dei metodi non cruenti per il controllo della fertilità nonché ad attivare strumenti e risorse finanziarie per promuovere, da parte dei soggetti pubblici e privati interessati, una reale ed efficace azione di prevenzione e la promozione di azioni sperimentali;
6. a convocare quindi in tempi brevi un tavolo tematico di concertazione con le regioni e le province autonome sul problema dei danni causati dalla fauna selvatica
7. ad assumere iniziative per vietare ogni ulteriore introduzione per fini venatori di esemplari di cinghiali su tutto il territorio nazionale, attuando o promuovendo azioni concrete per il recupero e la successiva reintroduzione, al termine dell’emergenza, dei suidi autoctoni italiani quali il Sus scrofa majori ed il Sus scrofa meridionalis;
8. ad adottare e promuovere, per quanto di competenza, tutte le misure necessarie per prevenire l’ibridazione con i suini allevati al pascolo e quindi iniziative per la regolamentazione di queste forme di allevamento
9. a valutare la possibilità di assumere iniziative normative, compatibilmente con le esigenze di finanza pubblica, volte ad introdurre una moratoria nei confronti dei debiti che i conduttori dei fondi hanno contratto nei riguardi della pubblica amministrazione e di tutti gli atti di pignoramento conseguenti, maturati a seguito del mancato reddito causato dal danneggiamento alle colture e ai ritardi degli indennizzi e risarcimenti dovuti;
10. ad assumere le opportune iniziative in sede europea al fine di riconoscere possibili indennizzi per i danni provocati all’agricoltura dalle specie selvatiche.
(8-00085) «Cenni, Massimiliano Bernini, Sani, L’Abbate, Oliverio, Luciano Agostini, Antezza, Anzaldi, Benedetti, Carra, Cova, Covello, Dallai, Dal Moro, Fiorio, Gagnarli, Gallinella, Mongiello, Palma, Romanini, Taricco, Tentori, Terrosi, Lupo, Parentela, Prina, Venittelli, Zanin».
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