In merito alla riapertura alla caccia delle zone di ripopolamento e cattura della Provincia di Chieti e al nuovo disciplinare sulla caccia di selezione al cinghiale, registriamo, dopo quello del presidente ArciCaccia, Angelo Pessolano, l’intervento del presidente regionale dell’Eps Abruzzo, Giacomo Nicolucci, della cui nota pubblichiamo gli stralci ritenuti più rilevanti.
«Nulla quaestio in ordine al legittimo potere esercitato dalla Regione. Purtuttavia l’intervento, giustificato con l’esigenza di contenere i cinghiali e appoggiato sulla previsione del non ancora vigente nuovo Piano faunistico venatorio, non convince affatto. – spiega l’avvocato e cacciatore – E, anzi, dimostra che l’Ufficio competente non si cura affatto né della gestione né del prelievo venatorio di specie diverse dall’irsuto suide e che tutto è contagiato dalla “febbre” cinghiale. Certamente la distribuzione di queste aree doveva essere rivista, ma la soppressione tout-court, in nome della incapace gestione del cinghiale, costituisce un vulnus anche per la stessa conservazione della biodiversità che vi trova riparo e sopravvivenza. E, per questo, sarebbe stato necessario attivare anche le procedure previste per le valutazioni ambientali di competenza. E’ ora di dire basta. La scusante del cinghiale non può rappresentare l’appiglio per disfare anche quel che di buono era rimasto. Del resto, è ormai chiaro a tutti che l’«emergenza cinghiale» non si risolve con la caccia, ma abbisogna di un approccio multidisciplinare e di regole di gestione completamente diverse. Il fallimento, anche nelle altre regioni, dei soli strumenti venatori che si stanno tentando di imporre, ne è una dimostrazione. La soluzione della caccia e degli abbattimenti è soltanto “emergenziale”, a volte è un palliativo e si scontra, appunto, con la primaria ed imprescindibile necessità di intervenire sugli habitat. La caccia può rappresentare “uno” degli strumenti di gestione faunistica, ma non è certamente l’unico cui affidarsi. E ad i cacciatori può essere soltanto addebitata una resilienza a diminuire le densità degli animali presenti sui territori qualora non vengano resi adeguatamente partecipi e responsabili del complesso della gestione faunistico-venatoria e divengano solo merce esecutiva di contorte cavillosità burocratiche. E così anche la più generale distinzione fra aree “vocate” e “non vocate” per la specie cinghiale. Un paradosso, giacché i confini di siffatte aree sono stati disegnati dagli Atc su istanze non certo obiettive ed anche perché, in ragione dell’ampia adattabilità della specie, le aree “vocate” si estenderebbero dalle vette montane alle spiagge, dai parcheggi dei centri commerciali alle piscine degli alberghi sulla costa. Invece, andrebbe soltanto suddiviso il territorio venabile in aree omogenee di gestione al fine di stabilire delle densità obiettivo che tengano conto di tutte le componenti antropiche ed ambientali in gioco. E le densità obiettivo devono essere raggiunte o mantenute senza imporre la distinzione manichea fra caccia collettiva e caccia individuale, ma consentendo, fermi gli obiettivi, una corretta possibilità di scelta da parte dei cacciatori, rendendoli autori protagonisti e responsabili del raggiungimento dell’obiettivo prefissato e concordato e
non meri “attuatori” od avversari. Premiando i virtuosi, piuttosto che minacciando roboanti ma inattuate sanzioni per gli ignavi».
Eps Abruzzo: «L’emergenza cinghiale non si risolve solo con la caccia»
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