Lo aveva detto, don Francesco Martino. Lo aveva detto con lucidità, con quella visione profetica che oggi suona come una condanna scolpita nella pietra: “L’ospedale Caracciolo morirà per consunzione.” Non per un’esplosione improvvisa, non per un taglio netto. No. Morirà consumandosi lentamente, mentre intorno tutto tace, tutto si distrae, tutto finge di non vedere. E in questo torrido luglio, mentre le agende si riempiono di vacanze e partenze, la profezia si compie. Silenziosamente. Fatalmente.
Perché non ci troviamo davanti a una casualità amministrativa, ma a una strategia chirurgica, scientificamente calibrata per ottenere un risultato preciso: smantellare l’unico presidio ospedaliero di un’intera area montana, un baluardo di sanità pubblica al confine tra quattro province e due regioni. Non si tratta di un effetto collaterale della razionalizzazione sanitaria, ma di un disegno cinico e consapevole. E come spesso accade nei territori dimenticati dallo Stato, l’operazione si consuma nel momento in cui la gente è più distratta, anestetizzata da ferie, caldo e disillusione. È il metodo preferito dei poteri opachi: colpire quando nessuno guarda.
Il Caracciolo non era solo un ospedale. Era un simbolo. Era la risposta concreta, nata negli anni ’50, alla marginalizzazione delle aree interne del Molise. Voluto dal senatore Remo Sammartino, costruito grazie alla generosità degli agnonesi che donarono i terreni, rappresentava una scommessa vinta: portare eccellenza sanitaria dove lo Stato si è sempre limitato a promettere. Per decenni è stato il primo datore di lavoro del territorio, un polo attrattivo di competenze e dignità. Una casa di cura per i corpi e, in fondo, anche per le anime di chi viveva in montagna, lontano dai riflettori, ma con il diritto sacrosanto alla salute.
Non era un carrozzone clientelare, non un pozzo senza fondo. Era un presidio virtuoso. Ha prodotto avanzi di bilancio, attratto utenza extraregionale, performato in termini di mobilità attiva. Aveva numeri, aveva qualità. Ma non è bastato. Perché in Molise, terra martoriata da commissariamenti e tagli lineari, funzionare è un crimine. Chi funziona viene visto come un’anomalia da estirpare, non come un modello da replicare.
Eppure, ciò che fa più male oggi, non è soltanto la chiusura. È il silenzio. È la resa senza condizioni di una comunità che ha smesso di lottare. Nessuna fiaccolata, nessuna rivolta. Solo rassegnazione, sottomissione, passività. Il popolo che un tempo soggiogò Roma, oggi tace. I discendenti dei Sanniti – guerrieri indomiti, ribelli per natura – oggi si voltano dall’altra parte, schiacciati da un senso d’impotenza che sfiora la complicità.
Ed è qui che il danno diventa sfregio. Perché non è la politica ad avere vinto. È la disillusione ad aver trionfato. È il vuoto di senso, la perdita dell’orgoglio. Senza dignità, nessuna battaglia è possibile.
L’Ospedale Caracciolo non è solo un edificio che chiude. È un pezzo d’identità collettiva che si spegne. È la dimostrazione che si può morire lentamente, senza una guerra, senza un’esplosione, ma per consunzione, come diceva don Martino. E quando muore un ospedale, muore un’idea di civiltà, muore una promessa di equità.
Ora resta una domanda, amara ma necessaria: chi sarà il prossimo? Perché se oggi tocca ad Agnone, domani toccherà a un altro pezzo di territorio. E senza una reazione, senza uno scatto di orgoglio, l’intero Molise rischia di diventare un deserto di diritti. Un luogo dove la sanità pubblica è solo un ricordo, e dove la rassegnazione prende il posto della speranza.
E allora forse, la vera cura non è quella che l’ospedale forniva ai suoi pazienti. La vera cura è il risveglio di un popolo che non può più permettersi di dormire.
Maurizio d’Ottavio