Oltre 46.000 vittime, senza contare gli sfollati, due nazioni in ginocchio, disperazione unita a fame e miseria, ma il dovere di raccontare e far conoscere all’intero mondo una delle catastrofi più immani che l’umanità abbia mai conosciuto nell’arco della storia. Una settimana a contatto con popolazioni, tra cui donne, bambini e anziani, che non sanno più cosa vuol dire la parola futuro. E’ stata la mission che Salvatore Cerimele, agnonese doc, 50 anni, professione regista e filmmaker cresciuto nelle tv locali (Teleregione e Telemolise, ndr), ha portato avanti in Turchia, al confine con la Siria, per la trasmissione Porta a Porta condotta su Rai 1 da Bruno Vespa. Una tragedia condivisa con il giornalista e inviato Daniele Piervincenzi conosciuto ai più per la famosa testata ricevuta da Roberto Spada, il boss di Ostia, condannato per il gesto a sei anni di carcere. Di rientro dal Medio Oriente, Cerimele, fondatore insieme al socio Danilo Di Nucci dello studio video ‘Le Iridi Digitali’ di Agnone, ci ha parlato del terremoto che ha sconvolto un’intera area paragonabile alla distanza che separa Roma da Milano. “E’ stata un’esperienza professionale di grande responsabilità – esordisce Cerimele che in passato ha firmato servizi per trasmissioni quali la ‘Vita in diretta estate’ di Rai 1 e ‘Kilimangiaro’ in onda su Rai 3-. In pochi minuti bisogna raccontare una catastrofe enorme affinché gli spettatori possano capire fino in fondo quale sia la reale situazione”.
Quali le difficoltà affrontate per recarvi sul posto e muovervi tra migliaia di vittime dove l’immagine della disperazione continua a fare il giro del mondo?
“Fondamentale avere alle spalle un team di professionisti che ti supporta dall’Italia. Per arrivare ad Ankara abbiamo preso due voli, poi, grazie ad una guida turca, dopo 8 ore di viaggio, siamo riusciti a raggiungere Antiochia, dove è iniziato il nostro racconto. Capirete bene che abbiamo dovuto provvedere a tutto noi: taniche di carburante, cibo, scorta di acqua e altri beni di prima necessità. Di notte dormivano in auto ad una temperatura che raggiungeva anche i -8 gradi, fortuna avevamo dei sacchi a pelo”.
La scena e la frase che ti hanno maggiormente colpito?
“In un villaggio completamente distrutto vicino Gaziantep quando abbiamo intervistato un signore sulla quarantina. Era vicino a un divano e altri pochi mobili. Si lamentava del fatto che gli chiedessero troppi soldi per trasportare altrove quei beni. A quel punto ci siamo chiesti a cosa potessero servire quelle cose? Lui intanto è scoppiato a piangere e ci ha detto di aver perso tutto: quei mobili erano l’unico ricordo che gli rimaneva. Ho pianto per ore”.
C’è stato un momento dove hai avuto timore di non farcela?
“Certo. Ero su un cumulo di macerie con Daniele. L’odore di morte era forte e avevano appena individuato un cadavere. Ho visto la sua mano tra le macerie, mi si è appannata la mente e gli occhi”.
Raccontare resta la missione principe di giornalisti e cameraman, dove si trova la forza per superare la tragedia e realizzare servizi senza farsi travolgere dall’emotività?
“Hai bisogno di una grande preparazione di base, sia tecnica che emotiva. In alcuni momenti vorresti abbandonare le tue attrezzature per aiutarli o addirittura scappare via perché ti senti inadatto. Ma è il tuo lavoro e lo devi portare a termine nel migliore dei modi”.
In merito al ponte umanitario che ruolo sta giocando l’Italia, quali le sensazioni che hai maturato in quei posti?
“Il vero orgoglio italiano lo riconosci in queste situazioni. Siamo stati con i Vigili del fuoco Usar specializzati in queste tragedie così come gli uomini del battaglione San Marco che hanno portato un intero ospedale da campo. Tuttavia nonostante l’aiuto di tanti nostri connazionali, la tragedia ha dimensioni inimmaginabili”.
Oggi, quelle popolazioni di cosa hanno bisogno?
“Di tutto, ma soprattutto di una vera cabina di regia che coordini gli aiuti. È tutto molto improvvisato. Ci sono molte persone a dare una mano ma è evidente che non vi sono le competenze per farlo”.
Cosa porterai dentro di te dopo aver vissuto un’esperienza così forte e drammatica.
“Chi mi conosce lo sa, ho sempre il sorriso stampato sulle labbra anche se oggi quel sorriso è una maschera. La notte ho gli incubi e sento ancora l’odore di morte nelle narici”.
Spesso e volentieri le immagini colpiscono e scuotono le coscienze più di qualsiasi parola o racconto. Sei d’accordo? Perché?
“Lavorare con le immagini come con le parole è difficile ed è una grande responsabilità. Si può sminuire o amplificare e dare una visione distorta di quello che accade. Per questo motivo preferisco i reportage che raccontano ciò che vedono gli occhi senza fare commenti. L’idea se la farà lo spettatore”.
Cosa serve per fare questo mestiere oltre a tanta professionalità? “Passione e tanto sacrificio. Devi anticipare i tempi di ciò che proponi. La televisione che guardiamo è quella che io faccio, ma non è quella che immagino. Guardo sempre al futuro e mi metto costantemente in gioco. Altra cosa, forse scontata, studio tanto: dalle attrezzature ai luoghi di ripresa. Tra qualche giorno andrò in Azerbaigian, uno stato di cui fino a ieri ignoravo l’esistenza. Ora lo conosco (quasi) come il mio Molise”.