• Editoriale
  • Testamento biologico e eutanasia (parte II)

    Una mia cognonima Licia Cianci, brillante studentessa in giurisprudenza  alla Bocconi di Milano, mi ha inviato una interessantissima riflessione sul tema in oggetto, con delle notizie su quanto accade nella legislazione nazionale e in particolare americana, con dei casi che, tuttora, animano il dibattito sul problema, emozionando e talvolta lacerando la opinione pubblica mondiale e mettendo in crisi i “credo” etici, morali e politici.

    Di rilievo sono le seguenti riflessioni:

     Il caso Quinlan.

    Karen Ann Quinlan, figlia adottiva di una coppia del New Jersey, entrò in coma all’età di ventidue anni, a seguito dell’assunzione di una bevanda alcolica.  Il 10 Settembre 1975, il padre della ragazza, Joseph Quinlan, si appellò alla Superior Court of New Jersey al fine di essere nominato suo tutore con l’espresso intento di autorizzare “the discontinuance of all extraordinary means sustaining the vital process of his daughter . . .”.

    Numerosi furono gli strenui oppositori a questa, allora considerata assurda, richiesta: i medici della ragazza, l’ospedale ove la giovane era ricoverata, il suo tutore ad litem, il procuratore e, in ultimo, lo Stato del New Jersey che si ergeva, legittimamente, come ultimo e più alto difensore del diritto della vita.

    Numerose indagini cliniche dimostrarono come il coma di Karen Ann fosse stato il risultato di un episodio di anossia cerebrale con una conseguente condizione di stato vegetativo permanente dipendente, per la sopravvivenza, da un respiratore automatico.

    La Supreme Court of New Jersey, nel rendere la sua sentenza, afferma che qualora sussistano, congiuntamente, l’accertamento della irreversibilità del Permanent / Persistent Vegetative State e una sottaciuta volontà del paziente resa chiara da sue precedenti dichiarazioni, convinzioni ed idee, allora il rispetto del diritto costituzionale alla privacy impone che i familiari possano prendere la decisione (substituted judgment), “ as to how she would exercise her right under the circumstances”, se mantenere oppure interrompere il sostegno vitale artificiale.Nel prendere questa decisione, chi fa le veci del paziente deve necessariamente allinearsi al suo pensiero e a quanto da egli espresso, attraverso parole e comportamenti, in vita.

    La Corte ammette che non sussistono prove sufficienti circa la volontà della giovane in merito alla sospensione delle cure; questa insufficienza, però, non si pone come ostacolo all’individuazione di una persona che, sulla base di uno stretto legame con il paziente, sia in grado di prendere una decisione conferente con quanto avrebbe voluto il malato.[

    Una tale impostazione metodologica, però, è stato rilevato, che porta alla costruzione ex novo di una volontà fittizia, perché presunta ed ipotetica.

    La Corte del New Jersey, nell’affrontare questo complesso caso, ha tentato di definire “the right to die” bilanciando due primari interessi: quello dello Stato, interessato a preservare il diritto alla vita e quello del paziente, Karen Ann, alla privacy.

    Il caso Cruzan.

    Nancy Cruzan, a seguito di un incidente automobilistico, riposa (?) in un letto di un ospedale dello Stato del Missouri in uno stato di permanente incoscienza (Persistent Vegetative State).

    La donna riesce a respirare autonomamente, ma è sottoposta ad alimentazione e idratazione artificiale.  I genitori chiedono la sospensione delle terapie di sostegno vitale artificiale, in nome di un auspicio della donna, reso manifesto in una conversazione con una compagna di stanza, di non doversi mai trovare nella privativa condizione vegetativa.  Il personale sanitario oppone un reciso rifiuto alle richieste dei genitori, in assenza di una pronuncia giudiziaria / giudiziale / di un tribunale, in quanto un tal pratica avrebbe condotto la donna alla morte.

    In una prima pronuncia,i giudici rispondono favorevolmente alla richiesta dei genitori, considerando sufficienti, forti della precedente giurisprudenza, le dichiarazioni dei genitori circa le volontà della figlia, appellandosi ad un diritto fondamentale ascrivibile in capo alle persone che versano nella medesima condizione di Cruzan: “a fundamental right under the State and Federal Constitutions to direct or refuse the withdrawal of death-prolonging procedures”.

    La Corte Suprema dello Stato, in antitesi con quanto emerso nella precedente sentenza, pur riconoscendo il diritto di rifiutare i trattamenti medici incarnato nella dottrina di Common law dell’ “informed consent”, incardinato sul quattordicesimo emendamento della Costituzione americana, definisce tale decisione come deeply personal per cui “no person can assume that choice for an incompetent in the absence of the formalities required by the Living Will statute or clear and convincing evidence of the patient’s wishes”.

    È necessario dunque un fermo e sufficiente quadro probatorio in quanto il potere di autodeterminazione con riguardo ai trattamenti medici non può che spettare al paziente stesso; non risulta sufficiente, dunque, basarsi su delle fittizie ricostruzioni, anche se fatte da persone che fortemente e profondamente conoscevano il paziente.

    La giurisprudenza ha, con questa sentenza, tentato di correggere quanto affermato dal precedente caso Quinlan sottolineando la personalità della scelta in materia di decisioni terapeutiche

     Il caso Schiavo

    Il 25 Febbraio del 1990, nello stesso anno in cui il caso Cruzan fu deciso, la giovane Theresa Marie Schiavo ha un collasso nelle prime ore del mattino in seguito al quale subisce gravi ed irreparabili danni celebrali che la conducono in uno stato vegetativo permanente.  Da allora, la donna ha vissuto in uno stato descritto dai medici come “persistent vegetative state”, alimentata ed idratata artificialmente.  Nel 1998, il marito della donna, nominato suo tutore legale, si appella alla Corte dello Stato della Florida perché si disponesse per la interruzione dei trattamenti vitali artificiali.

    Mutano le circostanze rispetto ai due precedenti casi, ma il dibattito è incentrato nuovamente sull’eticità di una tale procedura e sul “right to die”, il diritto a morire.

    Il caso che si profila nello Stato meridionale degli Stati Uniti presenta, però, un elemento addizionale: conseguentemente alla richiesta di Michael Schiavo, si accende un’accesa disputa familiare su quali siano state, in vita, le reali volontà della donna, fra il marito e i genitori della stessa, Robert e Mary Schindler.

    In primo grado, la Corte dello Stato della Florida statuì come vi fosse una “clear and convincing evidence” che la donna, in vita, così come affermato dal marito, avrebbe voluto l’interruzione dei trattamenti sanitari se mai si fosse trovata in uno stato vegetativo.  Il giudice Greer, dunque, accoglie la richiesta di Michael Schiavo.  I genitori, cattolici devoti, si appellarono e, in appello, venne riconfermata la precedente sentenza del giudice Greer.  La Florida Supreme Court si rifiutò di intervenire.

    Instancabili, i genitori della giovane donna, presentarono nuovamente appello supportato dalla possibilità di un trattamento in grado di ripristinare le funzioni cognitive. Cinque professionisti furono incaricati del compito di visitare la paziente in stato comatoso che si espressero scetticamente rispetto ad una tale eventualità. Basandosi su questa autorevole diagnosi, la Corte d’Appello così si espresse:

    “The judges on this panel are called upon to make a collective, objective decision concerning a question of law.  Each of us, however, has our own family, our own loved ones, our own children.  From our review of the videotapes of Mrs. Schiavo, despite the irrefutable evidence that her celebral cortex has sustained the most severe of irreparable injuries, we understand why a parent who had raised and nurtured a child from conception would hold out hope that some level of cognitive function remained.  If Mrs. Schiavo were our own daughter, we could not but hold to such a faith.  But in the end, this case is not about the aspirations that loving parents have for their children.  It is about Theresa Schiavo’s right to make her own decision, independent of her parents and independent of her husband (corsivo nostro).”

    I genitori si mossero con il supporto deciso di organizzazioni religiose, chiedendo che il tubo venisse riattaccato.  Ne seguì un intervento legislativo, la “Terri’s law” che autorizzava il governatore della Florida, Jeb Bush, ad intervenire nel caso.  Egli ordinò il reinserimento del tubo nella paziente; i medici dovettero obbedire a questo ordine.  L’intervento, però, venne immediatamente dichiarato incostituzionale in quanto violava un principio fondamentale, quello della separazione dei poteri.

    I genitori della donna, corroborati anche dalle dichiarazioni fatte, oltreoceano, da Papa Giovanni Paolo II,chiedono un nuovo processo; richiesta che viene, però, rifiutata dal giudice Greer.

    In seguito ad un energico dibattito, alimentato da botta e risposta (?) delle varie Corti statunitensi, viene ordinata la rimozione dei tubi che alimentavano la Schiavo entro trenta giorni.  Scaduto il termine per la rimozione il presidente della Corte, il giudice Greer, autorizza alcuni rinvii.  Dopo che il giudice della Circuit Court ha definitivamente emanato l’ordinanza volta a staccare il tubo di alimentazione che teneva la donna in vita, il 21 marzo il Congresso approva un atto noto come il Palm Sunday Compromise, l’ “Act for the relief of the parents of Theresa Marie Schiavo”, firmato nella notte dall’allora presidente George w. Bush.  Questo atto, trasferendo la competenza a giudicare alla giurisdizione federale, permette ai genitori di compiere un ultimo, estremo atto per salvare la vita della figlia: ricorrere alla United States District Court of the Middle District of Florida – giungendo, tra l’altro, non all’esito sperato – e, in estrema supplica / impugnazione (?), alla Corte Suprema Federale.

    La donna morì il 31 marzo 2005.

     

     

                                                                      Franco Cianci

     

     

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