AGNONE – «In Abruzzo la Asl, d’accordo con la Regione, ha applicato semplicemente la normativa alla lettera, senza distinguo o interpretazioni cervellotiche come avvenuto in Molise, prima per Castel di Sangro e Penne, creando ospedali di area particolarmente disagiata ricalibrati con le specialistiche necessarie secondo i territori, e poi, dopo azione concordata tra Regioni e Comuni con il Ministero Economia e Salute, appena è stato possibile, con Atessa. La verità che nessuno dice è che si era già deciso, in Regione, di portare a chiusura il “Caracciolo”. Forse, se ce lo concedono, qui rimarrà solo un piccolo poliambulatorio, perché volutamente per quest’area le cose rimangono solo sulla carta e non si attuano mai, mentre in Abruzzo si scrive, si fa e si attua. Credo che al più presto chiederò di essere trasferito ad Atessa, magari a fare il cappellano ospedaliero lì, perché, come dializzato, lì ho un ospedale ed un servizio anestesia e rianimazione, oltre che una rete efficiente che mi può salvare, qui in Molise non ho nulla, eccetto se vado a Campobasso. Inutile più protestare, lamentarsi, battagliare: con dolore bisogna emigrare. Anche perché non ho più voglia di dare fastidio a nessuno, visto che quando uno protesta la reazione è solo permalosa, piccata e di offesa personale, che genera solo protesta verso i superiori con ricatti conseguenti e richieste solo di mettere a tacere la voce fuori dal coro e dagli applausi».
Senza peli sulla lingua, don Francesco Marticono, parroco e giornalista, dializzato ed ex cappellano ospedaliero ad Agnone, denuncia ancora una volta una sorta di “disegno” per chiudere l’ospedale di Agnone. E l’occasione per lo sfogo è data appunto dalla constatazione che a pochi chilometri dall’Alto Molise, in val di Sangro, in una zona oggettivamente meno marginale, gli ospedali di area disagiata vengono realizzati, come dimostra il caso di Atessa, mentre nell’inutile contado amministrato da Iorio, Frattura, Toma e via elencando chi ha la sfortuna di nascere in montagna evidentemente non ha diritto nemmeno ad un pronto soccorso che gli salvi la vita in caso di necessità. «Si sta concretamente, con atti amministrativi successivi, togliendo man mano l’ossigeno all’ospedale, non rimpiazzando il personale che va in pensione, non facendo nulla per l’ammodernamento tecnologico, non prendendo alcuna decisione e rinviando fino alla morte naturale dei servizi. – aggiunge, duro ma solidamente ancorato alla realtà, don Francesco Martino – E’ la strategia della fabbrica in dismissione. Si incentiva la fuga dal presidio, come i casi Iavicoli e Cicchese dimostrano, demotivando anche economicamente i medici, sopprimendo tutte le Uos». E come dice da tempo la Caritas, «l’ultimo spenga la luce».
Francesco Bottone